di DARIO LODI <>
Una domanda rara: da dove arriva veramente la religione? Essa non riguarda certamente solo la civiltà occidentale, anzi, con ogni probabilità la religione così come la conosciamo e come non tutti amiamo, è stata importata dall’Oriente. Certe implicazioni fantastiche e certe ritualità fanno pensare alle numerose correnti spirituali indiane. Ma qui stiamo parlando di qualcosa di già consolidato e dunque non andiamo alla radice della domanda. Potremmo cavarcela dicendo che la religione è una necessità innata nell’uomo, elevando la spiritualità a qualcosa di oggettivo, addirittura di concreto pur nella sua volatilità, una volatilità lanciata alla conquista dello spazio.
Ma cos’è lo spazio, cosa rappresenta? L’umanità, prima delle conquiste scientifiche, se l’era immaginato come un luogo ideale dove sfogare il desiderio di vivere per sempre. Per arrivarci bisognava comportarsi bene: qui entra in gioco una regola basata sulla necessità di poter sopravvivere indisturbati, pronti, entro certi limiti, a rispettare la sopravvivenza altrui (principio di cooperazione interessato). Per chi non si comportava bene, da noi c’erano inferno e purgatorio (praticamente la reclusione del mondo normale).
Ma la vera ragione per cui ci si inginocchiava e si pregava febbrilmente era la paura della morte. L’uomo di fronte alla morte perdeva la ragione e si rifugiava in una speranza che lui stesso aveva fatto ferrea, perfettamente regolata, specie con il cristianesimo.
Tutto questo influiva sull’immaginazione umana più del mistero della vita (ad esempio, il buddismo si concentra proprio su questo e infatti non è una religione, ma una filosofia). Il vero spiritualismo è permeato di questo mistero e si confonde con l’armonia del mondo (ammesso che ce ne sia una), lo guarda in faccia, o per lo meno tenta. Sappiamo che lo Stoicismo è fatto così (a differenza del buddismo resiste, mentre quest’ultimo si lascia andare consapevolmente al flusso diritto delle cose), ma poi non basta.
Non basta perché anche con lo Stoicismo siamo su un piano di scarsa reazione alla soluzione del problema. L’uomo rimane in balia degli eventi e questo non rientra nella sua personalità, tanto è vero che si è rivolto alla religione. Comprendiamo, a questo punto, la sua importanza. Comprendiamo perché non sia facile da rimuovere, nonostante le coraggiose professioni di fede nelle più riposte risorse umane, comprendiamo la certezza nei miracoli della scienza.
Perché la scienza è nata sostanzialmente così, è nata come contraltare della religione e dalla religione ha preso il concetto di assoluto, di perfezione. La scienza, insomma, s’è dotata di una certezza di infallibilità ereditata psicologicamente dall’infallibilità religiosa.
Con il tempo e con le esperienze, tutta questa infallibilità pratica, tutto questo positivismo, non ha dato i frutti sperati. L’idea del fallimento scientifico, maturata filosoficamente nel ‘900 (vedi Heidegger, ad esempio, o vedi il nostro Croce che considerava poco la scienza, indicandone le ragioni, o vedi Freud e la sua scoperta di un mondo sottorazionale forse più importante di quello razionale), è responsabile di uno sconforto morale che ha prodotto revival religiosi, e proprio nel paese scientificamente più esposto, gli Stati Uniti.
Contro questa ondata mistica e irrazionale, fatta di timori e paure, fatta di angosce primitive, deve sollevarsi una sana indignazione, responsabilmente pronta ad ammettere un approccio sbagliato nei confronti dell’attività scientifica: essa dovrebbe essere vista come il superamento del vecchio mondo metafisico, come l’approntamento di un mondo nuovo, dove l’impegno deve essere diretto e privo di qualunque prevenzione, perché l’uomo è chiamato a gestire la realtà, non a subirla.
(ARTICOLO DI ARCHIVIO)
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