Nel nome della croce

image_printstampa articolo

La storia della Chiesa è un susseguirsi di luci e ombre. Ma non la possiamo leggere come se fossimo gli spettatori di un derby: tutte luci (o quasi) per i credenti, solo ombre (o quasi) per i noncredenti. In ogni epoca storica in cui è stata presente, la Chiesa ha distrutto e costruito in misura imponente. Tuttavia, fra le diverse epoche, ce ne fu una in cui essa impose al mondo la propria forza distruttiva in modi spietati, commettendo crimini e misfatti poco noti ai più. Sarebbe forse il caso di farli conoscere a un pubblico più vasto.
L’epoca sulla quale intendo concentrarmi in questo articolo comprende il quarto e il quinto secolo.

L’Egitto al tempo di Costantino

All’inizio del IV secolo la capitale dell’Egitto, Alessandria, era ancora una splendida metropoli e un importante centro di cultura, che richiamava le migliori energie intellettuali con il suo Museo e con la grande Biblioteca, in cui erano ospitati centinaia di migliaia di volumi.
La città, che era stata costruita nel 331 a. C. da Alessandro il Grande, era governata da un prefetto per conto dell’imperatore di Costantinopoli, anche se un grande potere era concentrato nella persona del vescovo e patriarca, capo della comunità cristiana. Questa è la premessa per introdurre i fatti sui quali mi soffermerò in queste pagine. Ma prima dovrei fare un passo indietro fino al 312, quando Costantino entrò a Roma. Per la prima volta nella storia dell’Impero Romano, l’imperatore era un seguace di Cristo.
L’anno successivo fu quello dell’Editto di Milano, nel quale si poteva leggere: “Concediamo tanto ai cristiani che a tutti gli uomini la religione che ciascuno preferisce”. Per quanti erano abituati al politeismo, questa non era una grande novità: dopotutto, si trattava solo di aggiungere una nuova divinità alle tante già esistenti. Non a caso, diverse lapidi dell’epoca raffigurano Cristo accanto alle immagini pagane. Per i cristiani era ammesso, come pare facesse lo stesso imperatore, pregare il nuovo dio per gli affari più importanti e, contemporaneamente, quelli vecchi per le faccende di tutti i giorni. Ma i capi della Chiesa facevano di tutto per imporre il dio unico, che interveniva nelle cose grandi come in quelle minori. Come avrebbe scritto Agostino alcuni anni dopo, nella omelia 34: “Da chi dipende la salute degli uomini, dipende anche la salute degli animali. Non vergognarti di pensare così del Signore Iddio tuo; anzi, sii sicuro, fidati, e guardati dal pensare in modo diverso. Chi dà la salute a te, la dà anche al tuo cavallo, alla tua pecora, fino alla tua gallina.”
Poco per volta, i nuovi predicatori cominciarono a diventare sempre più intransigenti. La libertà di scelta fra diverse divinità si trasformò in libertà di peccare e di dannare la propria anima. Le prediche si popolarono ben presto di demoni. I perseguitati si trasformavano gradualmente in persecutori. Se oggi i turisti di tutto il mondo possono recarsi ad Atene per ammirare il Partenone o a Roma per il Colosseo, nessuno può vedere più il tempio dedicato a Serapide, per il semplice motivo che esso fu ridotto in macerie nel 392 da un vescovo, sostenuto da una banda di cristiani fanatici. Il Serapeo era stato eretto ad Alessandria all’inizio del IV secolo da Tolomeo I dopo l’introduzione del culto di Serapide, dio dell’oltretomba, della fecondità, della guarigione e del Sole.

La distruzione cristiana del mondo classico

La storia che sto qui tratteggiando è descritta in ogni particolare in un libro del 2017, scritto da Catherine Nixey e pubblicato in Italia l’anno successivo da Bollati Boringhieri con il titolo ‘Nel nome della croce’, nella traduzione di Leonardo Ambasciano. L’Autrice, figlia di una ex suora e di un ex monaco, dice di sé: “Non ricordo di aver mai obiettato all’esistenza di Dio da bambina -ma, ugualmente, ricordo di essere stata abbastanza sicura che non esistesse da adolescente. La fede che avevo era morta, e i miei genitori non se ne erano resi conto, oppure a loro non importava più. Sospetto che da qualche parte, tra il monastero e il mondo, anche la loro fede fosse morta.”
In poco meno di trecento pagine troviamo la descrizione di numerosi episodi che testimoniano questa forsennata opera di distruzione sistematica. In quegli anni “la Chiesa cristiana demolì, danneggiò e fuse una quantità semplicemente sconvolgente di opere artistiche. Le statue classiche furono tirate giù dai loro piedistalli, sfigurate, profanate e fatte a pezzi. I templi furono rasi al suolo e bruciati fino a ridurli in cenere. Un tempio considerato come uno dei più splendidi dell’impero fu interamente distrutto. Molte delle sculture del Partenone furono oggetto di attacchi selvaggi, mutilate di mani e piedi -e gli dèi decapitati.”
Molto tempo prima, la bellezza e l’eleganza di Alessandria avevano colpito anche Giulio Cesare. Ma ormai, nel 392, la sua distruzione era già iniziata. Rimaneva in piedi, in tutta la sua imponenza, il tempio a Serapide. Stando agli autori del tempo, come Ammiano Marcellino, questo era un’opera che poteva togliere il respiro: “Il suo splendore è tale che le semplici parole gli farebbero un’ingiustizia.” Ora, vedere che i pagani potessero venerare le loro divinità in un simile capolavoro, mentre i cristiani dovevano accontentarsi di piccole chiesette, faceva andare su tutte le furie i capi della Chiesa. Fu così che all’inizio del 392 il nuovo vescovo di Alessandria, Teofilo, radunò un grande numero di cristiani che entrarono nel recinto sacro per distruggere il Serapeo.
Un soldato eseguì l’ordine del vescovo: colpì il volto della gigantesca statua del dio con un’ascia bipenne e recise la testa dal corpo, dopo di che la folla eccitata distrusse completamente la statua. Lo storico cristiano Rufino scrisse compiaciuto, nella sua Storia ecclesiastica, che Serapide, quel “decrepito rimbambito, fu bruciato completamente e ridotto in cenere davanti agli occhi degli alessandrini che lo avevano adorato.”
Naturalmente, qui gli storici si divisero. Per i cristiani, questa venne celebrata come una grande vittoria. Per gli altri fu una tragedia di dimensioni immani e il greco Eunapio sostenne che la distruzione del Serapio fu motivata da cupidigia: lungi dall’essere guerrieri virtuosi, i cristiani erano delinquenti e ladri. Quindi furono bruciate decine di migliaia di libri. Commentando un simile scempio, il nostro Luciano Canfora si è espresso in questi termini: “Il rogo dei libri è parte della cristianizzazione.”

Quando la religione distrugge la cultura

Ma torniamo all’introduzione della Nixey, che così prosegue: “Alcune delle statue più raffinate dell’intera costruzione furono quasi certamente distrutte per ricavarne macerie dalle quali costruire chiese. I libri che erano conservati nei templi non ebbero un destino migliore. I resti della più grande biblioteca del mondo intero, una biblioteca che aveva racchiuso un tempo forse settecentomila volumi, vennero distrutti dai cristiani. Ci volle più di un millennio perché qualunque altra biblioteca potesse anche solo avvicinarsi a una tale vastità di sapere. I lavori dei filosofi furono censurati e i libri considerati fuori legge diventarono materiale da combustione per i roghi che bruciavano nelle piazze di tutto l’impero.”
Tutto ciò aveva avuto inizio da quando l’imperatore Teodosio aveva proclamato il cristianesimo religione unica dell’impero. Ora, l’intolleranza del potere ecclesiastico stava soffocando tutto ciò che restava del paganesimo, ma si rivolgeva anche contro gli eretici e i giudei. La manovalanza per le azioni più violente veniva reclutata fra i monaci dei deserti circostanti, i parabolani, che operavano come servitori e guardie della Chiesa.
All’epoca della distruzione del tempio viveva ad Alessandria un filosofo e matematico quasi sessantenne, di nome Teone, noto per avere commentato gli Elementi di Euclide. Era padre di una scienziata e filosofa, che si era formata nella grande biblioteca e aveva aderito alla scuola neoplatonica, senza convertirsi al cristianesimo. I testimoni parlano di lei come di una delle menti più avanzate di allora: avrebbe formulato ipotesi sul movimento della Terra, superando la teoria geocentrica di Tolomeo, e inventato l’astrolabio, il planisfero e l’idroscopio. Fu traduttrice e divulgatrice dei classici greci; teneva lezioni pubbliche gratuite, che venivano seguite da una grande quantità di cittadini. Era molto amata dalla maggior parte degli alessandrini e, naturalmente, malvista da molti cristiani.
Nel clima di fanatismo e di ripudio della cultura e della scienza -ormai dominante in città- che si diffondeva in nome della religione cristiana, questa filosofa attirò su di sé l’ira del vescovo. Alla metà di marzo del 415, mentre rincasava, fu trascinata giù dal cocchio dai parabolani, portata nel grande tempio e scorticata con cocci aguzzi fino alla morte. Prima che morisse le cavarono gli occhi. Quindi bruciarono i suoi resti.

Il ruolo di Cirillo e della Chiesa

Da tre anni, patriarca e vescovo di Alessandria era il quarantaduenne Cirillo, nativo di Teodosia d’Egitto e grande persecutore di ebrei, pagani e novaziani (come si chiamavano i seguaci dell’omonimo antipapa). Più tardi, Cirillo sarebbe stato uno dei protagonisti del concilio di Efeso del 431, nel quale si oppose con grande forza a Nestorio, che negava la maternità divina di Maria. La sua teoria dell’incarnazione gli avrebbe procurato il titolo di Doctor Incarnationis ed è considerata valida dai teologi cristiani ancora ai nostri giorni.
Sul ruolo di Cirillo nella vicenda gli storici hanno fornito versioni contrastanti. Socrate Scolastico sostiene che il suo potere sarebbe andato ben oltre i limiti delle sue funzioni sacerdotali. Cirillo, infatti, arrivò ad espellere gli ebrei dalla città, a chiudere le chiese dei novaziani confiscandone il vasellame sacro e spogliando di tutti i suoi possedimenti il loro vescovo Teopempto, fino ad arrivare a un duro scontro con il prefetto imperiale Oreste. Nella sua Storia ecclesiastica, Socrate Scolastico scrive che questi fatti avrebbero comportato “una non piccola ignominia” sia a Cirillo, sia alla Chiesa alessandrina. Secondo il vescovo Giovanni di Nikiu, invece, si trattava di una strega, la cui eliminazione era per Cirillo un titolo di merito. E così la pensavano coloro che si riunirono per acclamare il vescovo, ringraziandolo per “avere distrutto gli ultimi resti dell’idolatria nella città.”
Di Ipazia (questo era il suo nome) il filosofo pagano Damascio avrebbe scritto un secolo più tardi: “era abile e aveva grandi capacità dialettiche; era assennata, amata e rispettata; i capi ricorrevano a lei quando c’era da discutere per la città, come accadeva ad Atene. Se ora le cose sono cambiate, allora il nome della filosofia era magnificato e ammirato da coloro che amministravano i principali affari pubblici.”
Il libro del quale ho scritto in queste righe non dedica molto spazio alla vicenda di Ipazia. Per contro, si apre e si chiude con la bellissima figura di Damascio.
Cirillo e Teofilo, suo zio, sono venerati ancora oggi come santi. In aggiunta, Cirillo è stato nominato Padre della Chiesa.


Categories:

,

Comments

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *