Cronologia essenziale del liberalismo (parte 4. Il liberalismo nel ‘800)

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di RAFFAELLO MORELLI <>
3.1 – Benjamin Constant  
Il pensiero politico liberale proseguì il suo cammino tra il ‘700 e l’ ’800, avvalendosi anche dei contributi della concezione utilitaristica di Jeremy Bentham (che aveva quali due punti chiave il costituzionalismo e l’altruismo innescato dall’egoismo), ma principalmente con l’opera di uno svizzero nato nel 1767 in una famiglia protestante agiata, d’origine francese, Benjamin Constant, che aveva studiato in Inghilterra, in Germania ed era tornato a Parigi per poi ottenere la cittadinanza francese nel 1795. Nel frattempo, Constant aveva conosciuto la coetanea Germaine Baronessa di Stael, figlia del noto banchiere svizzero Necker e moglie dell’ambasciatore svedese,  già molto impegnata con il suo celebre salotto cultural mondano e che già scriveva della situazione politica reale.  Constant e Madame de Stael, oltre ad intrattenere una quindicennale relazione non esclusiva, convergevano decisamente sul giudizio di merito degli sviluppi della Rivoluzione. Non bisognava restaurare, né accettare l’estremismo giacobino, né essere disponibili all’autoritarismo innescato da Napoleone. Vennero presto entrambi esiliati e il loro girovagare in Europa li portò ad una serie di incontri di alto livello intellettuale e sociale. Germaine de Stael ne trasse spunto per distinguere tra poesia classica e poesia romantica (a favore di quella romantica in equilibrio tra ragione e sentimento) e per esaltare la cultura tedesca. Constant si impegnò anche nella produzione letteraria ma principalmente proseguì nel riflettere sulla questione della libertà personali nei rapporti di convivenza, cioè su una linea liberale, senza suggestioni derivate dall’importante filosofo quasi coetaneo Hegel, padre dell’idealismo, che negando l’autonomia dei fatti reali (visti come una creazione dello spirito umano) finisce in pratica per contrapporsi al liberalismo politico. 

Benjamin Constant

Il contributo più noto di Constant è la distinzione tra due tipi di libertà: la libertà delle antiche democrazie e la libertà nella democrazia moderna. Nella prima, il potere è nelle mani di tutti i cittadini partecipanti direttamente alla vita politica (cosa resa possibile esclusivamente da due circostanze, che  i conviventi sono un numero ristretto e che  una parte di loro è  schiava, un’esistenza che consente ai cittadini di non lavorare e di essere liberi di impegnarsi nella politica).  Nella seconda, la libertà nella società moderna, è la libertà dei borghesi dediti soprattutto  all’utile e alla propria libertà personale,  condizione corrispondente al modo di essere in uno Stato di grandi dimensioni in cui non ci sono più gli schiavi. 
Constant colse che l’allargarsi l’area dei conviventi liberi, era un progresso assai forte ma faceva sorgere un nuovo problema, da lui descritto così: “il pericolo della libertà moderna è che, assorti nel godimento della nostra indipendenza privata e nel perseguire i nostri interessi privati, rinunciamo troppo facilmente al nostro diritto di partecipare al potere politico”. Tale problema non si poteva risolvere eliminando lo Stato dal quadro economico. Quindi al posto della partecipazione diretta di ogni convivente, occorreva introdurre la democrazia rappresentativa come strumento in grado di ottenere un risultato analogo. Poi, per scongiurare la degenerazione del potere esecutivo a danno della convivenza, occorre prevedere norme a garanzia della libertà e dei diritti individuali fondamentali. Non sfugga che con simili accorgimenti, Constant trasforma la natura del potere. Fino ad allora il potere era considerato il fine della politica, dopo, con la maturazione liberale,  si rafforzò il concepirlo quale strumento per  garantire la libertà e i diritti dei conviventi, e dunque da sottoporre a precisi limiti.
Naturalmente   simili pensieri sulla libertà  non avevano un’immediata applicazione automatica, però tendevano a diffondersi in diversi paesi a mo’ di aspirazione sommaria alle idee e ai principi messi in moto dalle Rivoluzioni Americana e Francese. Le guerre napoleoniche e infine la restaurazione dopo la caduta e il Congresso di Vienna (1815), furono il veicolo decisivo per l’espandersi dell’aspirazione alla libertà. In Europa, il punto di riferimento effettivo del liberalismo divenne l’Inghilterra, paese di tradizioni ma pervaso da un’attività politica capace di seguire il maturare degli avvenimenti. In diversi paesi europei si avviò la stagione in cui le parole d’ordine erano indipendenza e costituzione. E presto ci furono anche riflessi imitativi in varie colonie. I focolai più rilevanti – a viso aperto seppur duramente repressi oppure attraverso l’infittirsi delle società segrete – furono, oltre che in Francia, in Portogallo, in Spagna, in Grecia, in Belgio e pure in Russia (ove ci furono anche consistenti reazioni della cultura slava nazionalista).
 
3.2 –  Il malthusianesimo, le novità della scienza.
Mentre si sviluppavano concetti liberali per la convivenza più aperta,   insieme cresceva la popolazione convivente. A partire dal  ‘700 – con la medicina che iniziava a limitare le malattie –  l’ampliarsi della conoscenza delineò la sconfitta delle carestie diffuse nel ‘600. Così, durante il ‘700 in Europa gli abitanti crebbero da 125 milioni ad inizio secolo a quasi 200 milioni alla fine secolo , cioè di circa il 60% .  Questa crescita tumultuosa non risultò però omogenea. In Olanda fu il 16%, in Germania occidentale e  in Italia sotto il 40%, mentre fu oltre la media nella zona del Danubio, in Russia e soprattutto in Inghilterra. In sostanza la popolazione crebbe a seconda della capacità economica del paese, tant’è che l’Inghilterra ebbe la crescita più elevata pressoché di continuo fino a ben oltre il secolo XVIII. In ogni modo, oggi sappiamo che, per una serie di concause innescate dal più netto dinamismo intellettuale che porta ad un forte allargamento della conoscenza, la tendenza all’aumento della popolazione in Europa proseguirà in maniera sempre più accelerata fino quasi ai giorni nostri, connessa (non vi è dubbio) con le migliori condizioni di vita dei cittadini sotto quasi ogni aspetto.
 L’inglese Thomas Malthus, con i suoi libri a partire dal 1798, percepì la tendenza al crescere degli abitanti e si pose il problema dei mutamenti di prospettiva impliciti. Soprattutto, rilevò che la popolazione cresceva in modo geometrico, mentre i prodotti alimentari lo facevano in modo aritmetico, per cui nel tempo, a suo parere, sarebbero divenuti del tutto insufficienti. Questo rilievo ebbe un grande impatto, specie nell’ambiente di allora focalizzato solo sulla ricerca di modelli rigidi (una reminiscenza di tipo religioso).  In realtà per un aspetto era un ragionamento che richiamava un principio non eludibile – le condizioni effettive di un territorio permettono di accogliere stabilmente un numero massimo di residenti (salvo farvi affluire risorse dall’esterno) – principio che però riesce ostico e su cui  si tende  tutt’oggi a sorvolare, a causa dell’umana ritrosia a riconoscere i propri limiti. Per il resto, Malthus, siccome non concepiva potessero avvenire trasformazioni tali da mutare la quantità di risorse disponibili, non coglieva le concrete dinamiche effettive che il problema da lui individuato avrebbero potuto indurre.
 Per far fronte al portato della sua diagnosi – corretta ma solo in parte – nell’immediato Malthus proponeva di ridurre coscientemente  le nascite (programma per cui allora non esistevano le condizioni e che contrastava con la visione cattolica). I vincoli del malthusianesimo  vennero evitati all’epoca  con il fenomeno delle grandi emigrazioni verso gli altri continenti (specie le Americhe) e delle massicce esportazioni di grano dai paesi  più ricchi (Stati Uniti e  Russia)  verso gran parte dell’Europa che non ne aveva abbastanza. Ed in seguito quei vincoli risultarono allentati dall’imprevisto crescere  un po’ alla volta della produzione ad un tasso tendenzialmente superiore a quello della popolazione.
 In ogni caso, il principio ineludibile richiamato da Malthus  suscitò molti studi tesi a coglierne le possibili applicazioni nella politica economica. Specie David Ricardo elaborò una teoria sulla rendita differenziale e sui vantaggi comparati  nel commercio internazionale. E si batté in generale contro le barriere commerciali,  avversando le tariffe doganali poste sulle derrate agricole, che, mantenendo artificiosamente alto il  prezzo del grano, favorivano le rendite a scapito della capacità di produrre.
 Anche l’attenzione del pensiero scientifico si rivolgeva sempre più allo svolgersi dei fatti concreti, secondo l’indirizzo espresso ormai da tempo in politica dai pensatori liberali. Al riguardo, ci fu  una svolta significativa i primi dell’800, quando  Laplace, rispondendo ad una domanda del Primo Console Napoleone, affermò “non ho bisogno dell’ipotesi dell’azione del Creatore”, sancendo la rottura con una tradizione millenaria riguardo la nascita del mondo e mettendo in luce che il parametro divinità è fuorviante nella procedura sperimentale dello scienziato.  Nello stesso primo decennio del ‘800 , per di più, Lamarck  pubblicò due libri nei quali avviava, tra le critiche di tanti, una sua teoria dell’evoluzione. I viventi erano  prodotti dalla natura in tempi successivi e la loro complessità aumenta man  mano, formando una catena ininterrotta dalla materia inanimata a forme sempre più compiute. Le variazioni dell’ambiente innescano cambiamenti nei bisogni degli animali, i quali cambiano il loro comportamento. Secondo Lamarck, ogni variazione è sempre adattativa, non c’è differenza di qualità fra mondo organico e inorganico.  La vita sorge incessantemente dall’inorganico, diviene più complessa, e, quando termina,  torna allo stato inorganico e poi re-inizia il  cammino. Quindi Lamarck, per superare il concetto statico di specie introdotto da Linneo, individuò l’ambiente come origine delle trasformazioni evolutive.

Thomas Malthus

3.3 – Manchester  capofila industriale
All’inizio dell’ ‘800 avvenne l’accelerazione di quanto già accadeva negli ultimi decenni del ‘700: i principi della libertà individuale in economia, si estendevano  rapidamente, soprattutto in Inghilterra,  trasformandola in un paese industriale. Il fulcro della trasformazione fu la zona di Manchester (centro assoluto della lavorazione del cotone), che divenne il cuore delle numerose nuove caratteristiche dei sistemi di investimenti, di lavoro e di produzione. Nonostante che le macchine a vapore avessero ridotto molto la necessità di operai addetti alle lavorazioni, il forte dinamismo commerciale fece espandere sempre più l’occupazione. Il processo produttivo era assai frammentato, dato che ogni luogo aziendale eseguiva una specifica parte del lavoro e ogni azienda era collegata con le altre mediante apposite infrastrutture viarie di vario tipo (nel 1830 nacque la prima tratta ferroviaria Manchester-Liverpool), creando una sorta di rete di ragno. L’occupazione, inserita in un diverso tipo di processo produttivo rispetto a prima, si svolgeva ancora secondo pratiche in realtà non confacenti allo spirito generale di libertà personali, eppure  forniva condizioni di vita di più alto livello. Ciò in contrasto con la credenza sostenuta da allora e per  oltre un secolo (come è stato poi stabilmente smentito dagli studi degli ultimi decenni, che hanno condotto confronti comparativi con le condizioni precedenti). In contemporanea nel paese, l’attività del Parlamento acquisiva più peso accompagnandosi ad una continua opera di riforme delle leggi con l’obiettivo di corrispondere alle esigenze dei mutati rapporti civili e sociali.
Nel complesso, risultò dominante l’idea che la principale innovazione nel convivere fosse l’organizzazione del lavoro in campo industriale. Ed anche che, in questo campo, si manifestassero aspetti non abbastanza confacenti allo spirito della libertà individuale. Tuttavia una simile idea non corrispondeva in pieno alla realtà sperimentale della vita della società. Era un’idea in parte distorta da concezioni arretrate, come quella di Rousseau, che, incapaci di cogliere le novità implicite nello spirito di libertà, ne tarpavano l’anima di cambiamento e volevano applicavare quello spirito al tradizionale modo d’essere degli stati accentrati di potere fondati sull’assoggettare il cittadino. Con questa distorsione (o almeno comprensione parziale),  non si valutava appieno la spinta innovatrice complessiva della libertà (da assecondare), e si utilizzava il particolare aspetto delle ancora incoerenti condizioni di lavoro (da adeguare) al fine di contrastare decisamente quella libertà in quanto supposta necessariamente portatrice di una prassi dedita allo sfruttamento dei lavoratori a favore della proprietà. Ciò non impedì che proseguisse il lavorìo sotto sotto del criterio della libertà, ma ne ostacolò parecchio lo svilupparsi perché, oltre al nemico tradizionale delle solite concezioni di potere e religiose, crebbe rapidamente , e per circa un secolo e mezzo, anche la concezione operaista che ha rapportato per intero il clima politico a quella condizione lavorativa, quasi esprimesse e potesse esprimere la totalità del modo di lavorare e di esistere.


3.4 – Ancora liberali in Francia, Bastiat e Tocqueville.
Nel terzo decennio del secolo, alla fine degli anni di Constant, in Francia vennero due altri pensatori liberali, di qualità e di tipo assai diversi ambedue nati ad inizio ‘800, Bastiat e Tocqueville. Bastiat, il più anziano di qualche tempo, fondava il legiferare sul principio della libertà e della proprietà del cittadino individuo. Peraltro dava a questa sua convinta impostazione un valore incoerente con il conflitto liberale secondo le regole. Teorizzava il valore dell’armonia economica. Ed è per questo che, mentre indicava correttamente che il fine della legge è quello di garantire la libertà dei cittadini, al tempo stesso non riusciva a vedere che ricercare l’armonia corrispondeva alla soglia del  valore lavoro e della tendenza comunistica,  pure da lui aborrita. Il suo impianto filosofico era dunque contraddittorio nel concepire l’anima della libertà. Anche se è memorabile il suo sostegno al criterio di libero scambio internazionale, che gli suggerì un motto restato storico e ancor oggi attuale, “dove non passano le merci passeranno gli eserciti”.
 L’aristocratico normanno Alexis de Tocqueville, più giovane di quattro anni, dette una svolta al pensiero liberale misurandolo sulla realtà dei rapporti civili. E con ciò ebbe da subito un’influenza non indifferente. Lo spunto della sua riflessione venne dal viaggio fatto nei primi anni trenta negli Stati Uniti per motivi professionali (lo studio del sistema giudiziario) ma immediatamente divenuto un esame accurato sulle concrete dinamiche della società americana, dal quale indusse le tendenze implicite nei principi attuati. Nel suo libro “La democrazia in America” pubblicato in due volte, nel 1835 e nel 1840, Tocqueville partiva dell’essere un liberale convinto che “solo la libertà, non certo il dispotismo, può combattere nella società i vizi naturali degli uomini e trattenerli sul pendio per cui scivolano. Essa sola, infatti, può trarre i cittadini dall’isolamento nel quale la stessa indipendenza della loro situazione li fa vivere, per costringerli a riaccostarsi fra loro, e li scalda e li unisce ogni giorno con la necessità di capirsi, di persuadersi e di favorirsi scambievolmente nella pratica degli affari comuni. Essa sola è capace di strapparli al culto del denaro, ai piccoli pettegolezzi giornalieri dei loro interessi per far loro scorgere e sentire ad ogni istante la patria al disopra di loro e al loro fianco. Essa sola sostituisce di tanto in tanto all’amore del benessere passioni più energiche e più alte, offre all’ambizione scopi superiori all’acquisto delle ricchezze e crea la luce che permette di vedere e giudicare i vizi e le virtù degli uomini”.
 La base della politica è l’individuo e il suo scopo è proteggere il diritto alla libera espressione, in modo da conferire a ciascun individuo la possibilità di sviluppare del tutto le proprie capacità. Così per Tocqueville la libertà non era un privilegio di qualcuno bensì una dignità e un diritto spettanti a ogni cittadino. Dunque lui era incline alla democrazia con fermezza, in quanto la libertà non esiste senza democrazia. Al tempo stesso, peraltro, fu un critico penetrante dei mali democratici, perché  rischiavano di portare ad una democrazia senza libertà: in specie quelli conseguenti dall’intendere l’eguaglianza in modo approssimativo, col riferirla non alla giurisdizione ma ad un’indistinzione individuale del tutto irrealistica. In aggiunta, Tocqueville colse due questioni. Che il liberalismo politico non poteva ridursi  al garantismo giuridico (tesi degli oligarchi) e che la sovranità democratica includeva il pericolo della dittatura della maggioranza. Che poteva manifestarsi anche senza arrivare ad una dittatura vera e propria, ma creando una situazione di conformismo pubblico avente il carattere di vero e proprio dispotismo. “Se cerco di immaginare il dispotismo moderno, vedo una folla smisurata di esseri simili ed eguali che volteggiano su se stessi per procurarsi piccoli e meschini piaceri di cui si pasce la loro anima… Al di sopra di questa folla, vedo innalzarsi un immenso potere tutelare, che si occupa da solo di assicurare ai sudditi il benessere e di vegliare sulle loro sorti. È assoluto, minuzioso, metodico, previdente, e persino mite…Lavora volentieri alla felicità dei cittadini ma vuole esserne l’unico agente, l’unico arbitro…Non toglierebbe forse loro anche la forza di vivere e di pensare?”. Il viaggio di Tocqueville si svolse principalmente negli Stati del Nord e questo lo portò a trascurare il fenomeno della restante schiavitù, anche perché ritenuto un fenomeno ormai destinato ad non durare più molto a lungo.

Alexis de Tocqueville


 Tocqueville era convinto che in America il pericolo della dittatura della maggioranza fosse  arginata con successo dalla tradizione protestante radicata sulla concezione dell’individuo dotato di diritti e origine dei rapporti di convivenza, tradizione congiunta passo a passo al pullulare delle associazioni culturali e politiche, all’autonomia delle istituzioni locali , all’estendersi dello spirito giuridico (giuria di cittadini estesa agli affari penali e civili). Ed infine arginata dalla connessione tra la libertà e l’evolversi del cristianesimo (“Dubito che l’uomo possa sopportare insieme una completa indipendenza religiosa e una libertà politica senza limiti; sono anzi portato a pensare che, se non ha fede sia condannato a servire e, se è libero, non possa non credere”). Un concetto espresso con cautela, quasi un’ipotesi, che peraltro tratteggia un aspetto importante del liberalismo: non far parte delle ideologie, stante la sua natura metodologica di osservatore dei fatti. Fatti da valutare con lo spirito critico e da verificare sui risultati degli interventi di volta in volta compiuti. Quindi il liberalismo non si pone quale verità calata su ogni aspetto del mondo. Perciò, essendo consapevole che conoscere sempre di più non elimina mai del tutto quello che non si conosce, il liberalismo lascia spazio a chi cerca nel privato di colmare l’ignoto e si contenta di ricorrere alla luce  misteriosa della fede religiosa. Tocqueville riassunse l’inclinazione degli Stati Uniti al connettersi con queste parole: “ gli Americani di tutte le età, condizioni e tendenze si associano di continuo. Non soltanto possiedono associazioni commerciali e industriali, di cui tutti fanno parte, ne hanno anche di mille altre specie: religiose, morali, gravi e futili, generali e specifiche, vastissime e ristrette. Gli Americani si associano per fare feste, fondare seminari, costruire alberghi, innalzare chiese, diffondere libri, inviare missionari agli antipodi; creano in questo modo ospedali, prigioni, scuole. Dappertutto, ove alla testa di una nuova istituzione vedete, in Francia, il governo, state sicuri di vedere negli Stati Uniti un’associazione “. Senza l’argine dell’associazionismo come prassi civile, il dispotismo insito nella democrazia maggioritaria viene a galla.
Tocqueville sostenne la sua concezione liberale anche nella sua attività parlamentare in Francia durante il decennio ’40. Ma le condizioni della società francese erano sempre più disagiate e non inclini ad una maturazione liberale. Negli anni 1845-1846 ci furono gravi carestie in moltissimi paesi europei, seguite l’anno successivo da crisi di ogni tipo che colpirono l’economia pesantemente e che innescarono gravi tensioni popolari nelle città e nelle campagne. Così all’inizio del ‘848 iniziò in tutta Europa un periodo di moti rivoluzionari, all’insegna delle aspirazioni (fondate sull’idea consolidata che occorresse maggior libertà per i cittadini) a migliori condizioni senza un ragionato programma per realizzarle ed anzi con illusioni sempre radicate sulla capacità risolutiva della via rivoluzionaria. Di fatto in Francia, in pochi anni (con una parabola analoga alle due precedenti rivoluzioni del ‘789 e del ‘830/‘831) tutto sfociò alla fine del ‘851 nel colpo di Stato con cui divenne imperatore Napoleone III. In pratica stava prendendo corpo lo sperimentare l’incapacità strutturale della via rivoluzionaria ad arrivare al governo, limitandosi piuttosto  ad ostacolare, fino ad impedirla, l’azione liberale individuale (andamento che si ripeterà molto a lungo in Europa). In sostanza continuava a prevalere in forme diverse il residuo dell’antica concezione prerivoluzionaria (accentrata sull’esercizio del potere) ora rafforzata anche dal democraticismo rousseauiano e dalla montante ideologia socialista. Tocqueville approfondì la questione negli anni cinquanta pubblicando il secondo suo importante libro, L’antico Regime e la Rivoluzione, in cui espose l’interpretazione innovativa di quanto era accaduto a Parigi a fine ‘700.
La Rivoluzione non aveva capovolto la società francese, al contrario aveva proseguito e per certi aspetti rafforzato la propensione della monarchia a favorire uno Stato basato sul privilegio e amministrato dai feudatari, dall’anzianità e dalla forza, in sostanza accentrato nel comando e egualitario nella sudditanza. A questo Stato, la Rivoluzione francese aveva sostituito uno Stato fondato sull’eguaglianza del supposto ordine teleologico da seguire e amministrato con uniformità dal centro senza dar spazio all’individualità. Ciò rende chiaro il perché il proseguire continuista delle antiche tendenze egualitarie e accentratrici avesse prevalso durante e dopo la Rivoluzione, sull’orientamento liberale, più recente e meno diffuso. Scrisse Tocqueville “l’antico regime professava l’opinione secondo la quale l’unica saggezza è nello Stato, i sudditi sono degli esseri infermi e deboli che bisogna sempre tener per mano, per tema che non cadano o non si facciano male: l’opinione che è bene molestare, contrariare, comprimere senza posa le libertà individuali; che è necessario regolamentare l’industria, assicurare la bontà dei prodotti, impedire la libera concorrenza. Su questo punto l’antico regime la pensava esattamente come i socialisti di oggi”.
 Per Tocqueville, la centralizzazione delle istituzioni distrugge l’autogoverno, il pluralismo e la libertà dalla costrizione. La pratica politica liberale si fonda sull’educazione alla libertà e sulle garanzie per l’autonomia dell’individuo nonché sul decentramento istituzionale. Evita di impegnarsi nella difesa di una eguaglianza individuale sognata ma inesistente (salvo che sui diritti) e al tempo stesso pericolosa. Perché nella servitù è facile illudersi di essere eguali, mentre essere liberi nell’eguaglianza dei diritti è enormemente più efficace ma assai più complicato. In fin dei conti,  i rivoluzionari  francesi, facendosi prendere la mano dai giacobini e dal terrore, avevano mutato il senso del motto liberté, égalité, fraternité, facendolo divenire il vessillo di un ordine illiberale a livello internazionale.
 Tocqueville è stato il primo a segnalare che il liberalismo coinvolge tutti i cittadini, quindi è inseparabile dalla democrazia, ma insieme attua una libertà che è inseparabile dalla diversità individuale. Semmai, va osservato che non arrivò alla consapevolezza della conseguenza decisiva. E cioè che ovunque al liberalismo occorre molto tempo per maturare e in più che la sua maturazione fa sorgere sempre nuove problematiche a loro volta bisognose di ulteriore tempo per essere affrontate.



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