Cronologia essenziale del liberalismo (parte 6. Tre decenni di liberalismo inglese)

image_printstampa articolo

di RAFFAELLO MORELLI <>

3.8 – Tre decenni di liberalismo inglese.

3.8 a) Il quadro generale.
Nel paragrafo 3.3, ho già parlato del progressivo espandersi dei principi della libertà individuale nell’economia inglese e del suo tradursi nella rivoluzione industriale caratterizzata dalla frammentazione e dal progressivo impatto sulle condizioni sociali ed istituzionali del paese. Ci sono ritornato poco dopo, al paragrafo 3.5., trattando in specie della trasformazione dei whigs in Partito Liberale nel 1842. In sintesi, si può dire che in Inghilterra l’800 fu il secolo contrassegnato dal regno molto lungo della regina Vittoria (63 anni) e dai numerosi ed importanti primi ministri liberali che, durante questo regno, governarono il paese per oltre un trentennio (mettendoli insieme) .
Peraltro, negli anni centrali del secolo, un ulteriore carattere di rilievo nella cultura politica liberale, fu l’opera di un grande pensatore, John Stuart Mill, che ha dato un contributo importante al liberalismo. Ed è certo decisivo ricordare che in quello stesso periodo, sempre in Inghilterra, si verificò un avvenimento epocale nella storia della scienza di tutti i tempi (che, come sostengo, è affine al liberalismo): la pubblicazione del saggio di Charles Darwin, basato su ricerche sperimentali, che segnò l’avvio dell’evoluzionismo e delle nuove conoscenze, da allora raggiunte ed ancora in divenire. Ne parlerò in seguito.

3.8 b) I primi decenni della Regina.
La regina Vittoria ascese al trono appena diciottenne, pochi giorni dopo la scomparsa del suo ultimo zio senza figli. Dimostratasi subito molto determinata ma priva di esperienza, scelse la guida di Lord Melbourne, il primo Ministro in carica, un liberale arrivato al Governo anni prima nonostante il re avesse allora tentato, per l’ultima volta nella storia, di preferirgli un esponente Conservatore inviso al Parlamento. Lord Melbourne, con il quale Vittoria intessé un ottimo rapporto stabile, seguiva una politica di caute riforme civili (seppur frenando quelle radicali di parte dei whigs) nella convinzione che fossero da farsi per evitare eccessive tensioni tra la popolazione.
Gli ambienti conservatori avversavano la linea Melbourne e a primavera ’39 richiesero quale condizione per un nuovo governo, l’esclusione di diversi alti dirigenti della Corte ostili ad un nuovo corso. Uno dei primi atti della regina fu il rifiuto di questo intervento ostile all’indirizzo whig e Melbourne governò per altri due anni pieni. Poi i conservatori vinsero le elezioni nell’estate del 1841 e per una legislatura governò Peel, già in precedenza Primo Ministro, un conservatore deciso ma incline nel tempo al cercare un consenso tra i liberali, in particolare per abrogare i dazi sull’importazione di cereali. Alla fine i conservatori si spaccarono e divenne nuovo primo Ministro il liberale John Russel, che governò per sei anni (giugno ’46 tardo febbraio ’52).  
Il suo governo si distinse per finanziare la formazione degli insegnanti e per ridurre a 10 ore al giorno il  lavoro delle donne e dei giovani nelle manifatture tessili. Si distinse anche per le tensioni interne con il responsabile degli Esteri, Lord Palmerston (in quel ministero già più volte fin dal 1830), fortemente incline a favorire in Europa i moti proautodeterminazione. Del resto, il ruolo dell’Inghilterra nei rapporti internazionali era molto esteso da due secoli e mezzo, al punto da aver formato un impero assai consistente. Ed anche dall’avere una mentalità molto aperta riguardo la dimensione internazionale dell’attività industriale, essenziale in Inghilterra e in tutto il mondo, che portò nel 1851, alla prima Grande Esposizione Internazionale al Crystal Palace di Londra, organizzata da privati e senza tassazioni. Ebbene, Palmerston affermava che il ruolo inglese doveva essere di agire “con moderazione e prudenza, non divenendo il Don Chisciotte del mondo, ma sostenendo ciò che ritiene sia la giustizia e punendo ciò che  ritiene sbagliato”. E paragonava l’impero inglese a quello romano.
Dopo la caduta del governo Russell nel 1852 ed una brevissima parentesi conservatrice, Palmerston tornò al governo al Ministero degli Interni. Riuscì a varare diversi provvedimenti per regolare il lavoro dei minori (ad esempio, il divieto di lavoro dal tardo pomeriggio alla mattina) e ad introdurre per la prima volta la vaccinazione dei bambini. Divenuto Primo Ministro nel febbraio 1855, Palmerston lo restò per un triennio in cui si impegnò principalmente nella politica estera (trattato di pace con la Russia, seconda guerra dell’oppio in estremo Oriente, il governo dell’India affidato alla Corona inglese al posto della Compagnia delle Indie).
Dopo un anno e mezzo all’opposizione, i liberali vinsero di nuovo le elezioni e Palmerston divenne di nuovo Primo Ministro rimanendolo fino alla morte dopo oltre sei anni (tre mesi dall’aver di nuovo vinto le elezioni). In questo periodo, potenziò le strutture difensive marittime contro il pericolo francese, contribuì assai  a finanziare la spedizione garibaldina dei Mille e fece diverse dichiarazioni contro la schiavitù insieme al connesso commercio, ma restò neutrale nella guerra civile americana e  riconobbe la Confederazione Sudista, perché confidava che la guerra civile avrebbe diviso gli Stati Uniti indebolendoli (di riflesso rafforzando la posizione mercantile dell’Inghilterra).
 
3.8 c) John Stuart Mill.
Nel frattempo, nell’ultimo quarto di secolo, erano state pubblicate diverse opere di rilievo di John Stuart Mill, nato nel 1806, cresciuto dal padre negli ambienti colti degli utilitaristi, specie quello di Bentham ed inoltre educato sugli scritti di Adam Smith e di Ricardo. Nei primi anni ’40, Stuart Mill iniziò a pubblicare i suoi studi in un filone empiristico, completato dalla riflessione sull’esperienza. Il fulcro di tale attività era l’individuo e intorno a lui   la sfera di assoluta libertà, controllabile solo da lui. Il che portò Stuart Mill ad escludere che si potesse riconoscere ad una maggioranza di cittadini, una collettività, il diritto di detenere il potere. Anzi, era indispensabile organizzare la convivenza mediante precauzioni tese ad impedire la tirannide di una presunta volontà popolare. Approfondendo tale impostazione, Stuart Mill mise presto in evidenza altri due aspetti. La libertà implica necessariamente lo scambio degli apporti individuali nello sperimentare e nel riflettere. Inoltre il medesimo criterio si applica pure nell’economia politica internazionale, fisiologicamente aperta agli scambi tra i vari soggetti, al di là delle alleanze.
Le opere di Stuart Mill giunsero nel 1859 al libro On Liberty, che è il suo scritto più famoso, in cui argomenta l’applicazione integrale della libertà, focalizzata sui diritti individuali, in ambito locale e nazionale, e con il suffragio esteso anche alle donne (proposta che Stuart Mill formalizzò da solo anche alla Camera dei Comuni). Tutto ciò è indispensabile per soddisfare al massimo il principio utilitarista, che è dare la massima felicità al maggior numero di cittadini. La condizione per realizzare   un simile obiettivo è sviluppare la democrazia, che è la via più adatta per assicurare i diritti dell’individuo, consentirne la libera espressione attraverso le regole scelte e costruire man mano l’istituto parlamentare.
Naturalmente, John Stuart Mill rifuggiva gli effetti dell’egualitarismo, che livella una società privandola di spiriti creativi , e portando tutti  a fare stesse cose, ad andare negli stessi luoghi, ad avere le medesime aspirazioni. L’importante nella convivenza è attivare, attraverso la diversità, gli spiriti  originali e creativi, i quali trainano la capacità di innovare la conoscenza del mondo. Seguendo una siffatta impostazione, Stuart Mill  ha proseguito lo sviluppo del filone liberale che contrasta in radice le dottrine giacobine alla Rousseau, in quanto strenue fautrici di un  passato da eternizzare riproducendone gli errori. Un filone che dunque contrasta anche le allora germoglianti dottrine anticapitalistiche diffuse dal marxismo, le quali ritenevano indispensabile affidarsi, piuttosto che allo spirito critico dei liberi cittadini, alle indicazioni fisse e ben definite emanate dal potere  al momento dominante, o dalle elites o da istituzioni irrigidite nella pratica del dover essere preconcetto.
Avendo il fine di accrescere la conoscenza, Mill non si limitò né all’osservare la natura né al seguire la ragione teorizzante. Riteneva invece essenziale applicare alla sperimentazione il riflettere formulando ipotesi interpretative ed esplicative da verificare. Questa procedura combinata proteggeva dal razionalismo dogmatico e dall’empirismo relativista. E ovviamente era indotta ad interessarsi non solo della natura fisica ma anche dei rapporti umani che costituiscono una componente attiva del convivere fisico. Da qui  Stuart Mill fu un precursore pure delle scienze sociali, che sono poi divenute un settore innovativo importante. Peraltro la loro maturazione si è via via distaccata sempre più dal criterio liberale della libertà e dell’individuo, e con questo percorso le scienza sociali sono entrate in contraddizione intrinseca.  
Su tale afflato contraddittorio, va fatta una sintetica riflessione. Dicendo che è una contraddizione apparente, estranea al pensiero di Stuart Mill, e che in realtà testimonia un dato di fatto differente: la difficoltà, a partire da quell’epoca (circa i tre quarti dell’ ‘800), di proseguire lo sviluppo politico del metodo liberale. Di fatti, Stuart Mill fu un pensatore liberale di grande rilievo che aveva intuito il carattere dinamico del liberalismo strettamente connesso al passar del tempo, alla diversità degli individui e al cambiamento delle regole da fare per convivere. Non c’era contraddizione nel suo attenersi ai fatti. Egli trattava temi analoghi a quelli trattati da Tocqueville negli stessi anni (di cui ho parlato prima nella parte finale del paragrafo 3.4). Però, pur non dandone una descrizione compiuta fino in fondo, compiva un passo ulteriore, cogliendo un aspetto insito nel liberalismo individualista fino ad allora non abbastanza studiato. Quello che l’individuo è il motore dell’agire liberale, eppure, nel delineare una struttura liberale, è indispensabile tener conto che gli individui motore sono una moltitudine in ogni momento e fase del convivere, la quale moltitudine, proprio in base al liberalismo, non si trasforma mai in collettività o comunità indistinta.  Una simile caratteristica del tutto coerente con la percezione della storia dal ‘600 in poi, trova tuttavia la stabile resistenza di chi non concepisce un tipo di conoscenza diverso da quella fissa e definita usata nel passato. Perciò, questa esigenza sollevata da Stuart Mill suscitò diffuse perplessità e a livello di cultura politica non decollò mai in pieno. Nei decenni a seguire, il liberalismo proseguì a manifestarsi fecondo e sperimentato, ma non crebbe altrettanto nella cultura di larghe fasce di cittadini. Risultò frenato da pregiudizi contro il dinamismo individuale, da allora sempre più robusti.
Del resto, il metodo liberale è già ostico di per sé. Essendo fondato sulla diversa individualità del cittadino, è una rottura con la tradizione millenaria antecedente poiché apporta un’innovazione non banale rispetto alla pratica di gestione statica delle condizioni di potere ottenute nel vivere. In aggiunta, dover tener conto, come suggerito da Stuart Mill, che il metodo liberale si attua attraverso una amplissima molteplicità di individui motori del cambiamento, ha costituito fin da allora un ostacolo assai difficilmente superabile al diffondersi del riconoscimento della superiore efficacia cultural politica di tale metodo. Ciò perché, accoppiando il metodo individuale alla molteplicità degli individui,  la gestione statica del potere diveniva di fatto impossibile pure in teoria. E questo contrastava  la convinzione umana secolare secondo cui l’obiettivo dell’esistere è raggiungere la conoscenza definitiva del come le cose devono funzionare. In sostanza l’essere umano è attratto dalla prospettiva di divenire immortale, in particolar modo quando si tratta di istituzioni.  Oltretutto, non potendo il liberalismo neppure concepire forzature operative incoerenti con il proprio metodo caratteristico, i pregiudizi contro l’individualismo divengono insuperabili durante il confronto politico, prevalendo il clima ossessivo teso a ricercare ogni volta una soluzione definitivamente sicura.
Di fatto, la proposta innovativa di Stuart Mill venne subito bloccata dalle concezioni non liberali se non loro avversarie. Le quali, addirittura, iniziarono presto ad interpretare la sua opera – e lo sostennero per lunghissimo tempo – non tanto quale percezione avanzata della libertà individuale in una società composta da una miriade di individui, quanto l’avvio di una nuova concezione mista tra liberalismo e socialismo che non solo finiva per non rispettare le scelte liberali di Stuart Mill, ma che lo riconduceva nell’alveo delle idee tendenti a progetti assoluti fuori del tempo (svariati decenni dopo, nel ‘900, un esponente di prima fila  della Scuola austriaca giunse a definire Stuart Mill come il più grande avvocato del socialismo).

3.8 d) L’evoluzionismo.
Trattando dello sviluppo del liberalismo in Inghilterra e sempre restando alla parte iniziale della seconda metà ’800, è necessario fare riferimento all’opera dello scienziato Charles Darwin. Un collegamento del genere è inusuale solo in base ad una prassi storica che non si sforza di capire la realtà degli avvenimenti, e continua a volerli  classificare per mezzo di ideologie statiche evitando di usare il metodo più efficace nell’affrontare la comprensione dinamica del reale.
Darwin era un naturalista nato nel 1809 che, servendosi del clima universitario e scientifico già  maturati, nel decennio ‘30- ‘40 raccolse una gran mole di dati nel corso di cinque anni di viaggi intorno al mondo sul brigantino Beagle, dotato di attrezzature scientifiche Nel periodo immediatamente successivo pubblicò i suoi appunti e le sue osservazioni. Seguì una lunga riflessione sui dati raccolti e diversi anni dopo, nel biennio ‘58/’59, prima presentò una comunicazione sulla selezione naturale alla Linnean Society di Londra e dopo pubblicò il libro “L’origine delle specie”, in cui descrisse la sua teoria dell’evoluzione e della selezione naturale delle specie animali e vegetali. L’opera sperimentale di Darwin – sviluppata e modificata negli anni –  ha letteralmente stravolto il successivo rapporto umano con la natura, coll’introdurre il ruolo centrale del tempo fisico nell’evolversi di ogni organismo vitale. Darwin ha messo in luce che alcune specificità tra i diversi organismi individuali sono trasmesse da una generazione all’altra, e risultano più frequenti quando, nell’ambiente in cui si manifestano, risultano avere una funzione più utile al vivere. In altre parole si verifica una selezione naturale, che è alla base del cambiamento lento ma pressante degli esseri viventi. Appunto della loro evoluzione.
Simili idee avevano un’evidenza ed una concretezza innegabili e si diffusero subito con forza tra i cultori della scienza. Allo stesso tempo, tuttavia, vennero fieramente avversate dalla cultura allora dominante, modellata  per tradizione su concetti di tipo religioso. Il darwinismo non veniva accettato poiché era la negazione  del creazionismo sancito dalla Bibbia, la quale stabiliva che i viventi sono stati creati ad immagine e somiglianza di dio. Non si riteneva concepibile che il credo divino fosse criticato, se non addirittura cancellato, da procedure fondate solo sullo sperimentare le osservazioni della natura e su riflessioni umane.
Trovo evidente che, dal punto di vista concettuale, il lavoro di Darwin abbia in sostanza una stretta correlazione con il metodo liberale, in Inghilterra e praticamente ovunque. Il nocciolo sta nella sua capacità sperimentale di risultare più adatto, imperniandosi sul confronto tra individui diversi,  a trovare sistemi di governare la convivenza capaci di agevolare l’esprimersi delle caratteristiche dei cittadini (e così anche migliorare la convivenza). Che poi è oltretutto la strada più efficace di conoscere meglio le cose del mondo vivente. Per tale motivo è fisiologico ricondurre l’evoluzionismo nell’alveo del filone  liberale.  
Va inoltre rilevato che darwinismo e liberalismo  hanno avuto nell’affermarsi una tendenza rivelatasi nella storia del tutto diversa. Il primo, seppure tra le naturali difficoltà sopra segnalate, da quell’epoca ebbe una crescita inarrestabile al passar degli anni e fino ad oggi. Gli ambienti scientifici erano ormai (e crescentemente) convinti assertori del sistema sperimentale e perciò ne accettavano metodo e risultati, che appunto per tale motivo finivano per riprodursi con frequenza sempre maggiore. Gli altri ambienti erano inclini a diffidare del darwinismo, ma non disponevano di strumenti adeguati di contrasto ai risultati che esso otteneva. Alla fine, al di là del capire il senso profondo del metodo sperimentale, venivano coinvolti  dalla curiosità e dall’utilità delle scoperte di raggio in continuo ampliamento nonché dalla speranza dell’innovazione, un criterio che peraltro andava crescendo nelle relazioni della convivenza e del dibattito politico. Dunque il ruolo del darwinismo, si irrobustì nei decenni, a poco a poco e  di continuo.
Il secondo, il liberalismo,  si rivelò ben presto un sistema che aveva assai maggior difficoltà nel diffondersi .  Innanzitutto, con l’anteporre la libertà individuale del cittadino quale strumento e finalità dell’organizzazione istituzionale del vivere tra diversi, terremotava credenze radicate da tempo immemorabile nella quotidianità, le quali prescindevano dal porsi sufficientemente il problema del capire le cose del mondo e quello dell’adottare i criteri dei rapporti umani per esercitare il cervello (nel complesso continuavano a praticare il sistema dell’affidarsi a forze ultraterrene ritenute determinanti sulla natura e sugli esseri viventi) . Viceversa il liberalismo poneva al centro l’attività umana esercitata in modo libero, che, pur non escludendo varietà di scelte nei settori ancora non conosciuti e non sperimentati, indicava per i settori noti il criterio di affidarsi a quanto veniva indicato attraverso le decisioni assunte dai cittadini mediante il selezionare i diversi progetti ipotizzati. Ragion per cui il liberalismo veniva contrastato dalle organizzazioni strutturate sulla rappresentanza ultraterrena e con robuste ramificazioni sul territorio, dai seguaci dei comportamenti irrazionali, dagli ignoranti a proposito delle cose del mondo e paurosi dell’ignoto, dall’inclinazione al piegarsi alla forza dei potenti e al conformismo della scala sociale esistente.   
Il contrasto al liberalismo veniva inoltre rafforzato dallo svilupparsi della proposta politica socialista nei vari paesi europei, in particolare modo in quelli con una ridotta tradizione di autonomia  civile, vedi i paesi latini. A parte le antiche radici circa generiche aspirazioni ugualitarie tra cittadini basate sul disporre in comune dei beni (inoltre propense ad un sistema di governo utopico),  le idee socialiste si coagularono con l’avvento delle industrie, culla quasi spontanea  del proletariato, che forniva lavoro e puntava a non essere sfruttato. Peraltro, il contrasto con il liberalismo non stava in ciò. Stava nel pratico rifarsi alla tradizionale ripartizione in stati di appartenenza sociale statici e, soprattutto, al non accorgersi che ogni possibile trasformazione si fondava non sul collettivo bensì sul trasformare il cittadino individuo valorizzando sempre più la sua azione innovativa. Così il socialismo valorizzava il ruolo e l’importanza dello Stato, trasformandolo anche senza volerlo da istituzione collaborativa in mano ai cittadini in strumento sovrapposto ai cittadini. Così il socialismo si avvalse quale tratto distintivo dell’appartenenza proletaria, ma non seppe coniugarla con l’apertura alla novità dello scoprire il cittadino individuo. Anzi, ne divenne progressivamente un avversario in nome del mito del proletariato come strumento atemporale destinato al sicuro prevalere. Questo modo di porsi costituì un ostacolo robustissimo contro il diffondersi del liberalismo e del suo metodo di confronto continuo all’insegna della variabilità. In più, la versione più strettamente marxista del socialismo, fin da quell’epoca contribuì non solo a far crescere la propensione statalista ma soprattutto a gonfiare un’interpretazione della scienza in termini rigidi estranei all’animo profondo dello sperimentare e dunque velenosi negli effetti contro la libertà individuale. 



Comments

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *