le forme dell’aldilà: viaggio nel paradiso monoteistico

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di LUIGI MAZZA <>
La tradizione giudaica

Nella tradizione ebraica il paradiso viene indicato come Gan Eden, letteralmente giardino delle delizie. Esso è un luogo non-luogo, uno spazio non fisico nel quale ci sono dei limiti e dei confini che non possono essere superati. Il Gan Eden è una dimensione spirituale sovrasensibile a cui giungono le anime dei giusti dopo la morte fisica per godere eternamente della visione di dio. Nell’escatologia ebraica il raggiungimento del Gan Eden presuppone due princìpi di fede fondamentali: l’immortalità dell’anima e il giudizio di dio che elargirà premi o castighi. Per l’ebraismo il raggiungimento del paradiso è la tappa finale di una vita proba e virtuosa, una vita in cui si sono rispettate le 613 mitzvòt (precetti).
Per l’ebraismo dopo la morte fisica l’anima dell’uomo si presenta al giudizio di dio. La tradizione religiosa ebraica parla di premi o castighi, ma non dice nulla su quali essi saranno: «Nessun occhio ha contemplato ciò che Dio, e nessun altro all’infuori di Lui, riserberà a colui che Lo ha atteso» (Isaia 64, 4). L’unica certezza è che nel Gan Eden vi sarà la separazione totale dal mondo fisico e sensoriale e che ogni beatitudine sarà esclusivamente spirituale e contemplativa. Il paradiso avrà come caratteristica principale quella di ricompensare l’anima pia, che nella vita terrena ha subìto privazioni ed ingiustizie, con pace, gioia e serenità.

La tradizione cristiana

Questa caratteristica accomuna la visione ebraica a quella cristiana dell’aldilà. Anche il cristianesimo, infatti, contempla una vita ultraterrena che sia riparatrice dell’ingiustizia del mondo sensibile, una vita priva di dolore, dove il giusto sarà ricompensato con amore, pace e serenità, una vita in cui poter contemplare eternamente il volto di dio. Questa ricompensa ultraterrena, d’altronde, è già insita nelle parole di Gesù, che nel Discorso della montagna enuncia le famose Beatitudini: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli, ccc . Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli». Per i cristiani, l’obiettivo finale è il ritorno alla visione divina, e questo ritorno avviene attraverso due vie: un comportamento pio in vita e la grazia di Gesù Cristo. Quelli che scelgono, invece, di non seguire il verbo di Gesù riceveranno una ricompensa in base a ciò che hanno fatto nella vita terrena, ma non assaporeranno la gloria di vivere alla presenza di dio.

La tradizione islamica

Molto diverso è, invece, il concetto di paradiso (al-janna) per la tradizione islamica. Innanzitutto esso è prerogativa esclusiva dei musulmani in quanto seguaci di Muhammad e dell’unica religione autentica. Poi, a differenza degli altri monoteismi, che pongono l’accento sul significato spirituale della vita ultraterrena, esso ha una valenza spiccatamente materialista. Il paradiso islamico è descritto, infatti, come un luogo di estrema felicità, ricco di giardini dove crescono rigogliosi alberi, piante e fiori. Questi giardini sono attraversati da immensi fiumi di latte, vino, miele ed acqua purissima. Ogni tipo di cibo vi si trova in abbondanza e viene servito su piatti d’oro da fanciulli vestiti di seta. Per rimarcare la visione marcatamente maschilistica dell’Islam, anche in paradiso gli uomini possono godere dei piaceri sensuali, sia eterosessuali sia omosessuali; essi hanno a disposizione mogli e vergini dai bellissimi occhi simili a perle: «E invece ai Pii toccherà luogo agognato, giardini e vigneti, fanciulle dal seno ricolmo coetanee e coppe traboccanti», Corano Sura LXXVIII, An-Naba’ (dell’annuncio), vers. 31-34; «E fanciulle buone e belle (…) dagli occhi grandi e neri, nelle loro tende racchiuse (…) mai prima toccate da jinn né da uomini», Corano Sura LV, Ar-Rahman (del clemente), vers. 70-74; e moltissimi fanciulli: «E quelli che avran creduto, e li avrà seguiti la loro progenie nella fede, li riuniremo colà alla loro progenie e non li defrauderemo di alcuna delle loro azioni: e ogni uomo sarà pegno di quel che s’è guadagnato. E forniremo loro frutta e carne, quella che desiderano. E si passeranno a vicenda dei calici d’un vino che non farà nascere discorsi sciocchi, o eccitazioni di peccato. E s’aggireranno fra loro giovani a servirli, giovani come perle nascoste nel guscio», Sura LII, At-Tur (del monte), vers. 21-24.
Al pio musulmano viene promesso, quindi, tutto quello che in questa terra gli viene negato e proibito. Da sottolineare che per le donne, invece, non è previsto nessun piacere o godimento nell’aldilà. Anche in paradiso, così come in terra, ci sono però delle differenze. Al-janna, infatti, è composto da gironi. Il più basso tocca ai musulmani che dopo aver espiato i propri peccati escono dall’inferno ed entrano in paradiso a carponi; gli infedeli, invece, cioè coloro che non hanno abbracciato l’Islam, subiscono ogni sorta di tortura per l’eternità. Il girone più alto è riservato ai martiri, uomini morti per la causa di dio. L’escatologia islamica prevede, infatti, che un posto in paradiso sia assicurato a colui che muore come parte in lotta contro l’oppressione, in qualità di shahid (martire, cioè testimone). Il Corano dice che il jihâd fa accedere alla più grande ricompensa ed è la strada più sicura per il paradiso se il guerriero muore: «E non chiamare morti coloro che son stati uccisi sulla via di Dio, anzi, vivi sono, nutriti di grazia presso il Signore!» Corano, Sura III, Al-’Imrân (La famiglia di Imran), vers. 169; ed ancora «Combattano dunque sulla via di Dio coloro che volentieri cambiano la vita terrena con l’Altra, ché a colui che combatte sulla via di Dio, ucciso o vincitore, daremo mercede immensa» Corano Sura IV, An-Nisâ’ (delle donne), vers. 11.

Riflessioni

A differenza dell’aldilà giudaico-cristiano, che pur prevedendo un paradiso ed un inferno mette in primo piano il perdono di dio e la possibilità di redenzione, l’aldilà islamico è sicuramente molto più traumatico, sia nella visione paradisiaca sia nella visione infernale. Sicuramente il paradiso islamico porta con sé un fascino immenso agli occhi di un uomo che vive nelle difficoltà, nell’ignoranza, nel dolore, nell’oppressione. Non è difficile immaginare quanto sia facile, con tali argomenti, plasmare le menti fragili di giovani musulmani a cui la vita ha dato solo drammi, paura e fame. Gli attentatori suicidi, infatti, si immolano in nome di Allâh sperando in una vita ultraterrena felice, una vita diversa che li ripaghi da tutta la sofferenza che questo mondo ha donato loro. Ma il musulmano è “costretto” ad una vita proba non solo da queste promesse di gioia eterna, ma anche dalla paura per un inferno terribile. Nessun uomo in piena libertà potrebbe credere ad un dio vendicatore qual è il dio islamico, un dio che prevede per gli uomini pene eterne, un dio feroce, quasi sadico, un dio che disseta i peccatori con pus o sangue bollente affinché gli intestini si sciolgano, un dio che versa sulle loro teste acqua bollente o frusta gli infedeli col ferro. La verità è che il fanatismo di pochi danneggia la vita di milioni di persone, uomini e donne che vorrebbero vivere sereni ma che vengono continuamente torturati psicologicamente con obblighi assurdi, minacce terribili o promesse vaneggianti.


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