di AVV. CARLO PRISCO <>
L’art. 1, comma 24, del DDL n. 1611/10, il cosiddetto “Lodo Alfano”, prevede che: “Quando l’azione penale è esercitata nei confronti di un ecclesiastico o di un religioso del culto cattolico, l’informazione è inviata all’autorità ecclesiastica”. Una simile previsione determina almeno due riflessioni circa altrettanti principi fondamentali della Costituzione: l’uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge e la pari dignità e libertà di tutte le fedi e confessioni.
La norma del DDL suona come una nota stonata rispetto alla melodia dell’art. 3 della Costituzione, secondo il quale: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
Ad un primo e più superficiale livello ci si potrebbe domandare a quali esigenze pratiche assolva una simile previsione normativa: quale, insomma, la ratio sottesa ad una tutela che normalmente è (o sarebbe) fondata su motivi funzionali o di garanzia di indipendenza e terzietà, ovvero ancora di non interferenza tra poteri o cariche, che per funzionare correttamente presuppongono meccanismi di tutela rafforzata. Sfugge, insomma, l’esigenza pratica cui ricondurre la norma. E, tuttavia, ad un livello più profondo, sfugge anche la sua compatibilità rispetto all’art. 3 della Costituzione: si potrebbe ragionare mediante un elementare sillogismo, secondo il quale SE tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge e SE gli ecclesiastici sono cittadini, ALLORA gli ecclesiastici sono eguali davanti alla legge!
Ma qualcosa sembra non funzionare, poiché il sillogismo si frantuma e ne scaturisce una duplice discrasia: gli ecclesiastici risulterebbero infatti distinti da tutti gli altri cittadini da un lato e, dall’altro lato, anche dagli esponenti di tutte le altre religioni, siano essi pastori protestanti, rabbini, imam, etc. Insomma, se una qualsiasi esigenza di tutela fosse realmente sottesa a questa norma, non si comprende per quale motivo i rappresentanti delle altre chiese non meriterebbero la stessa forma di tutela e se – al contrario – una ragione mancasse, non si comprende per quale motivo (e con quale fondamento) gli ecclesiastici andrebbero distinti da tutti i non ecclesiastici.
Tra l’altro non può sfuggire il paradosso di una siffatta previsione normativa, che imporrebbe agli stessi religiosi di sopportare una evidente violazione del fondamentale precetto cristiano dell’uguaglianza.
Insomma, come abbiamo detto un simile principio potrebbe essere affermato sulla scorta di considerazioni di ordine pratico, che tuttavia non pare si possano desumere né dall’esperienza, né dai lavori preparatori del DDL: al contrario, simili previsioni sembrerebbero affini a quelle riservate ai rappresentanti diplomatici di altre nazioni, né si può tacere che lo Stato Vaticano è a tutti gli effetti una nazione estera, di cui peraltro gli ecclesiastici non hanno la cittadinanza (salvo chi vi risiede e rare eccezioni).
Dunque assisteremmo all’affermazione di una sorta di principio di extraterritorialità degli ecclesiastici, benché cittadini italiani, nei cui confronti tuttavia l’Autorità Giudiziaria incontrerebbe limitazioni simili a quelle previste per i diplomatici stranieri, i quali comunque presentano almeno due requisiti essenziali estranei al clero: la cittadinanza estera e lo svolgimento di mansioni che per propria natura e garanzia presuppongono la non soggezione a controlli e/o autorità locali, senza ovviamente dimenticare l’essenziale condizione di reciprocità.
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