Riflessione sulla morte e sul morire

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di GRAZIA ALOI <>
Ci sono ben poche – anzi, pochissime – certezze nella vita, cosa che fece asserire a Freud che l’Uomo non è padrone proprio per nulla di se stesso. Non assunse certo, egli, un atteggiamento tra “chi” fosse veramente il “padrone” della Vita, non essendo direttamente interessato ad aggiungere altro ai già ben noti dilemmi, tormenti e patimenti su finalità, destini e fini ultimi. Che dire se non che, da dai tempi dei tempi, forse non è stato possibile soffermarsi e basta sulla Grande Verità cui “l’arte del ben ragionare” ci ha condotti? Ci si sarebbe potuti fermare alla logica dei principi generali inviolabili sulla Realtà e sulla logica del “sappiamo di non sapere” e che sì, si vorrebbe anche sapere…. e, infatti, si sa eccome: nulla esenta, esonera, sottrae, risparmia, toglie dalla Morte. Si è lavorato tanto per spiegare e comprendere questa cosa che non dipende da noi, cercandone, appunto, un’idea logica che consolasse e ci si è rivolti perfino alle deduzioni: “se vivo, muoio e visto che vivo, dunque muoio”.

La Morte, il Fatto, il Senso

Dunque, la Morte…. ma: che cosa è la Morte? Ineluttabilmente è un “Fatto”, una realtà immodificabile, è qualcosa che porta ad una conclusione ed è qualcosa di compiuto. Come tutti i fatti, anche questo ha un suo senso psicologico, anzi ha “il” senso, perché vivere, la sua qualità, dipende dal senso che ognuno di noi ha della morte. Non si può vivere bene senza un buon senso della morte e viceversa. Credere oppure non credere in se stessi, nelle cose della vita, negli affetti, nel futuro, nella speranza, nei progetti, nelle fantasie, nelle prospettive, nelle ricerche dipende da questo. Ma come spesso accade, quasi mai ciò che dovrebbe essere, realmente è. Ognuno vive come vuole e come può e ben sapendo che morirà, ma ciò che maggiormente determina il sentimento di pena (quando lo si coglie) dello stare nella vita è, a mio parere, sapere che resteremo (o potremmo restare) senza coloro che moriranno prima di noi. Soffriamo sicuramente di più pensando che le “nostre” persone ci lasceranno, piuttosto che pensando al dolore dagli altri provato per la nostra morte. La disperazione dell’essere abbandonati, del restare soli, è quasi sempre maggiore rispetto a quella del lasciare. Quante volte si lascia per non essere lasciati!
Qualche parola sulla dignità e sul decoro della Morte come fatto intimo, assolutamente privato. Il rito, qualunque rito, ha la sua funzione di sistemazione: sappiamo prima di tutto che la persona. E’ veramente morta, sappiamo dove l’abbiamo messa o dove è finita, l’abbiamo – il più delle volte – accompagnata e ne abbiamo pianto le spoglie. Abbiamo chiuso – momentaneamente – la relazione.
Momentaneamente: il tempo del “rendersi conto” dell’accaduto. Poi, ognuno reagisce alla propria maniera. C’è chi nega, fa finta di niente, chi si isola, chi si dispera o si rassegna, chi prova un’intima liberazione a volte inconfessabile, chi è colto da furiosa rabbia, chi è preso da depressione o da “ilarità” reattive, chi invece non reagisce per nulla, chi si colpevolizza… e tante altre forme inespresse o espresse, in un modo o in un altro. Molto dipende dalla persona e tanto, tantissimo ancora, dalle circostanze del fatto-morte. Il sapere come, quando, dove, perché è avvenuta la morte cambia notevolmente la percezione e la reazione. Quante morti inspiegate restano inspiegabili! E, quindi, inesistenti rispetto alla chiusura del legame psicologico.

La reazione e il lutto

La reazione più “sana” da un punto di vista psicologico dovrebbe essere l’intimo tempo del lutto, ossia il tempo del cordoglio personale, del rimpianto e della nostalgia, il tempo dedicato alla memoria volontaria, elaboratrice di vecchi ricordi, di emozioni e di fotografie stabili o istantanee fulminee. Comunque, un tempo per deprimersi e per sciogliere le energie di quel legame affinché possano essere trasportate, trasferite in un’altra relazione, di qualsiasi natura, con altre persone o situazioni o comunque sostituti, purché liberamente scelti ed investibili di nuova energia vitale. E dunque, da un tempo all’altro: da quello di ieri disinvestito a quello di domani investito di nuovo attraversato dal desiderio di continuità.
Ma vi è anche un’altra “morte”: il Morire che è differente dalla morte; non più fatto, bensì “Evento”, atto volontario (evento significa “venir fuori”). Non intendo, almeno qui, il morire come atto del darsi la morte, ossia suicidarsi, bensì morire come modalità mortifera di vivere, ossia come atto di darsi la non-vita. Morire come vivere (tristemente) con un piano d’ammortamento: l’etimologia di ammortizzare deriva da morte ed è morire un poco per volta (per quote d’ammortamento!!). La psicologia e la psicoanalisi (in fondo molto debitrici ad un certo di tipo di filosofia) confortano nell’esprimere il parere e la convinzione di voler distinguere il Fatto involontario della Morte dall’Evento volontario del Morire, sia per implicazioni di ordine mentale che emozionali. Il morire è innanzitutto il negarsi il diritto e il dovere d’aver subito il Fatto involontario di essere Nato. E da ciò ognuno può dedurre ciò che meglio crede per vivere vivendo o vivere morendo.

La riflessione

Ovviamente, non sempre e non tutto è liberamente scelto: sarebbe bene però che ognuno sapesse, fosse consapevole con il cuore che vivere-vivendo non è poi così difficile se si impara ad “amare” ciò che ci riguarda, passato compreso e se si impara a non trascurare e a non oscurare nulla. Ossia, far luce (sempre) su ciò che è oscuro, peggio (o meglio) ancora se è buio. Eppure, a volte esistono condizioni in cui la “cecità” è preferita rispetto alla visione; situazioni in cui, ad esempio, il vivere-vivendo è insopportabile per debolezza mentale o psicologica e, dunque, si preferisce lasciarsi andare a ciò che, da solo, viene come “sollievo” (visto come tale) delle pene / difficoltà del vivere. Quando non ce la si fa, ci si lascia morire. Ecco, questo in poche parole. In ogni caso, sarebbe davvero un peccato non fare di tutto per mettersi almeno in una piccola possibilità di esperienza e di conoscenza e, quindi, di scelta per… non morire.
Riflettiamo su questo.


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