di DARIO LODI <>
Luigi Pirandello, scrittore, commediografo fra i più insigni del secolo scorso (premio Nobel per la letteratura nel 1934; Pirandello aveva 67 anni, ne vivrà altri due), da giovane era un cattolico convinto. Per un banale incidente, causato da un prete che imbrogliò un’estrazione per fargli vincere un’immaginetta, Pirandello abbandonò la Chiesa e si rifugiò in una propria visione mistica dell’esistenza, alla ricerca di conferme.
La ricerca fu strettamente personale e si avvalse, fra alti e bassi, della psicanalisi freudiana così come della psicologia di Alfred Binet, allora molto nota. L’avvicinamento alla psicanalisi fu favorito dalle condizioni della moglie, Maria Antonietta, dentro e fuori i manicomi, anche a causa di un improvviso dissesto finanziario provocato da una frana sulle miniere di zolfo di sua proprietà.
Pirandello imparò parecchio da psicanalisi e psicologia: è ben dimostrato nelle sue numerose commedie, tutte incentrate su questioni esistenziali radicali. Allarmante, per le anime belle, la filosofia contenuta nel romanzo “Uno, nessuno e centomila”, dove il pensiero pirandelliano esprime un relativismo pessimista, persino di grana grossa, non alieno da una sanguigna disperazione di fondo, con tanto di riscatto, tuttavia, in un divenire di stampo quasi buddhista (che di fatto Pirandello respirava nei soggiorni a Soriano nel Cimino, in provincia di Viterbo, un magnifico luogo, a mezza collina, immerso nel verde).
Al teatro, Pirandello fu spinto dall’amico Nino Martoglio e per lui fu una specie di salvezza unita a dannazione: nel teatro, il grande commediografo siciliano poté dare corpo alle sue preoccupazioni, alle sue considerazioni, sebbene, andando a riflettere continuamente sul tema centrale dell’esistenza, un’ossessione, e ribadendo in maniera instancabile la sua angoscia per la mancanza di risposte, egli si ritrovò ad alimentare un cruccio insanabile per la pochezza della vita rispetto alle energie in campo.
Tutto ciò lo portava ad un relativismo ondeggiante fra lo sconforto e la speranza di trovare uno spiraglio da cui fuggire con animo sollevato. Pirandello non era certamente uno sprovveduto: non andava alla ricerca di una consolazione qualsiasi, così come la Chiesa rischia di fornire predicando una religiosità ingessata (ma altrettanto fa parecchia filosofia). La consolazione pirandelliana deve contenere motivi razionali, deve ricevere un’approvazione consapevole sino in fondo. Pirandello, si appoggia molto al dubbio e allo scetticismo, volendo forse dimostrare una serena capacità di valutare le cose e di accettare quelle sgradevoli, ma poi cala dubbio e scetticismo in un’amarezza profonda che lo porta fuori dall’impeto iniziale.
Ma lui non si perde affatto nella sconsolatezza, non teme di non arrivare al dunque e alla fin fine non gli importa neppure di giungere ad una conclusione. Lo aiuta il concetto del divenire, però non si lascia trasportare dal flusso, bensì intende seguirlo razionalmente ed anche spiritualmente. A questo punto, razionalità e spiritualità non sono irreggimentate, ma sono tese ad una continua perfezione, pur con tutte le difficoltà del caso, da lui ben percepite, ma forse non altrettanto ben vissute (e in tutto questo sta la sua grandezza, in quanto gli alti e i bassi, più i bassi per la verità, dell’esperienza spinta dalla percezione, sono estremamente sinceri).
Pirandello vive la vita interiore con le sole proprie armi, senza inginocchiarsi e senza congiungere le mani. Il suo misticismo è quello – abbastanza nuovo – di un uomo che affronta lo spirito da pari a pari. Non lo rinnega, ma non accetta la presenza ingombrante di un dio che lo comanda. D’altra parte, va sottolineato il fatto che la Chiesa cristiana s’è in buona parte allontanata dal Vangelo, piegandosi ad una divinità imperiosa (quella del Vecchio Testamento), cieca ed indifferente di fronte alle problematiche che il divenire porta con sé: essa non deve piegarsi al relativismo, ma dovrebbe rispettarlo e opporvisi con argomentazioni più incisive, più profonde, evitando quelle imbalsamate.
Meglio ancora sarebbe, come aveva capito alla perfezione Pirandello, superare l’impasse ecclesiastica ed assumere in prima persona, ciascuno la sua parte, il problema spirituale (che è vivo, come si sa, come si prova, in tutti gli uomini).
L’ateismo del Nostro sta qui: per chi scrive, è l’assunzione di responsabilità trascendentale, nel senso della comprensione o anche solo della semplice fruizione del trascendente, in luogo di un totem cui delegare la propria dignità.
Era ateo lo scettico e relativista Pirandello?
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