di SERGIO MORA <>
Preludio nazionalistico. D’Annunzio era nato nel 1863, pochi anni dopo la promulgata unità d’Italia. La Fede risorgimentale, “Dio, patria e famiglia”, aveva iniziato il suo lento processo di formazione, affrontando difficili processi di modernizzazione. L’eredità classicistica della cultura scolastica italiana permaneva come il retaggio di antiche glorie umanistiche.
Le speranze e l’eroismo sviluppato nel periodo delle lotte di liberazione dallo straniero erano decadute all’interno di una incerta e grigia “routine”. Una sottile patina di indifferenza e scontento morale si era manifestata quando il governo centrale piemontese non volle riconoscere l’esercito garibaldino all’interno della creazione del nuovo assetto della difesa. Il sogno di libertà non volle divenire fonte d’ispirazione della nuova Italia.
L’alba della burocrazia. La Nazione, per volontà dei Savoia, preferì irrobustirsi nella rete di fitte ed intricate norme burocratiche. L’Italia degli Uffici, dei Ministeri, trasmigrò in modo inglorioso da Torino a Firenze e poi verso Roma, insediandosi nei palazzi dell’antico potere dei Papi. Decenni prima, una voce critica di cauto dissenso, s’era fatta sentire all’interno di una poesia d’impianto umano e civile che ancora oggi dovremmo, purtroppo, fare nostra nelle quotidiane letture: mi riferisco al carme “All’Italia” di Giacomo Leopardi.
“O patria mia, vedo le mura e gli archi
e le colonne e i simulacri e l’erme
torri degli avi nostri,
ma la gloria non vedo…”
Una lingua gloriosa. D’Annunzio espresse l’Italia incompiuta ed “arrangiata” che l’Unità del paese aveva consegnato ai suoi cittadini. La Fede politica e quella religiosa sono destituiti d’importanza e non contano nulla all’interno di un mondo di velleitarismi politici e di una perniciosa gestione economica.
In precedenza, uno scrittore come Antonio Fogazzaro, aveva illustrato il lento ma inesorabile sgretolarsi della morale e della fede religiosa all’interno di un paese che stava sempre più allontanandosi dalle antiche certezze.
Giovanni Verga aveva mostrato come l’antica fede contadina, l’atavica pazienza degli umili si stava incrinando nel naufragio di un apparato nazionale astratto e vacuo.
A D’Annunzio rimaneva, come punto di riferimento, la vastità del lessico italiano da continuare a rimpinguare, proseguendo nella storia della letteratura come i suoi più illustri predecessori: Dante, Manzoni, Carducci e Pascoli.
In quella lingua di vicende nazionali D’Annunzio vedeva il punto di partenza ed il punto di arrivo della sua missione letteraria.
Senza Dio in un paese di ombre. Dopo l’esame di coscienza civico-religioso proposto dai romanzi di Fogazzaro, D’Annunzio è il primo scrittore d’ispirazione atea dell’Italia unificata. In lui si fondono l’alterigia del “lessicografo” e l’indifferenza del cronista mondano immerso in una mondanità da operetta.
L’ispirazione filosofica di D’Annunzio è Nietzsche, mal digerito in una salsa estetizzante dove, più che al nucleo drammatico di un secolo allo sbando, si guarda ai toni aulici di uno stile spesso apocalittico, sostitutivo di una pseudo religione che si chiama “superiorità”.
Il “superuomo” di D’Annunzio è il borghese tronfio: la classe ex aristocratica che vive nelle nuove aspirazioni politico-ministeriali della scalata romana verso il baricentro economico-sociale.
Il messaggio di Nietzsche viene inoculato in modo distorto, “autoreferenziale”, all’interno di una classe di “parvenu” totalmente lontani e diversi dai progenitori interventisti dell’epoca, ormai dimenticata, delle lotte d’indipendenza.
In questa muova letteratura -attiva in Europa con Baudelaire, Rimbaud, Tolstoj, Dostoevskij, Wilde- D’Annunzio aggiorna l’orizzonte del quotidiano aprendosi ad una astuta filosofia “nichilista” espressione della stampa e della classe dirigente dell’epoca.
Liberty funerario. Il passaggio dall’Ottocento al Novecento non è per niente ottimistico, o meglio, un falso buon umore nasconde le derive di problemi insoluti. Nei suoi romanzi, soprattutto nel “Piacere”, D’Annunzio illustra i termini estremi di una classe dirigente che rinunzia ad essere veramente se stessa per adescare nuovi fenomeni di corruzione e sfascio civile. È l’epoca dei grandi scandali dell’Italia unitaria, basti pensare alle vicende della Banca Romana.
L’ateismo di falso conio nietzschiano, propugnato da D’Annunzio, celebra l’essenza disfattistica, funeraria di un “Liberty” votato ad affogare nelle sue stesse ceneri.
La morale della grandezza. Nel teatro D’Annunzio persegue la stessa immagine di compiaciuta agonia nazionale, sia nelle immagini veristiche di vicende popolari – La figlia di Iorio – che nella ricostruzione di drammi storici, posposti a testi illustri come la “Francesca da Rimini”. Un teatro d’impostazione meramente “retorica” che nulla ha a che vedere con una più attiva analisi intimistica, come nei testi di Ibsen, dove emerge una sensibilità che in parte Giacosa aveva tentato di individuare.
Anche in questi testi si realizza una sola visione dell’Io che esclude riflessioni e confronti che non siano fonte di pura velleità e mania di grandezza.
Il brodo primordiale. L’opera poetica di D’Annunzio diluisce la sostanza storica ed estetica dell’arte nazionale in un brodo etimologico inesauribile. D’Annunzio compie la sua rivoluzione letteraria e linguistica, come Joyce, come Pound, Elliot e Gide, affondando la sua penna nell’oceano di parole, espressioni ed analogie che il nostro bagaglio culturale ha prodotto in oltre due millenni. La sua corsa all’interno della lingua italiana non esclude i meandri etimologici dei trascorsi latini e greci: l’eredità classicistica, su cui si erano formati i suoi lettori- appartenenti sia alla classe media che a quella dirigente- trovavano nella sua opera le lusinghe di un mondo scolastico non dimenticato e di cui essere fieri.
La parola magica. D’Annunzio trae la sua forza comunicativa da un linguaggio carico di suggestioni verbali e mnemoniche in continua dilatazione. I contenuti vengono generati dalla proliferazione della forma, attraverso abili analogie e derivazioni, spesso in contraddizione con se stesse ma capaci di generare l’ipnosi di una magia comunicativa fine a stessa. Il continuo attingere a fonti latine od omeriche, illude il lettore di vivere l’epica del tempo presente come era stata vissuta nel passato. Non esiste quindi una vera e propria coscienza storica. Questa simbologia classicistica è comune anche a Joyce e a Pound.
Basti considerare la costruzione omerica dell’Ulisse di Joyce o la parafrasi continua della cultura etimologica classica per raccontare l’epos del denaro nei Cantos di Pound.
Una lingua che nega la lingua. Questa fuga nella mitologia e nella etimologia raccontano la fine della comunicazione diretta e l’inizio di un “non linguaggio” continuamente mediato da riferimenti pseudo storici. Si tratta di una manifesta propensione atea della vita, priva di correlazioni fideistiche avulsa da una finalità sociale. Un ateismo di facciata, dove non esiste un progetto etico tangibile se non l’evidente tramonto della comunicabilità. L’unico fine potrebbe essere il silenzio, l’afasia come approdo dal caos delle immagini della vita. Hugo von Hofmannsthal aveva proiettato questa catastrofe della semantica nella impossibilità di continuare a scrivere. La sua celebre “lettera a Lord Chandos” ne è la lampante dimostrazione.
D’Annunzio celebra l’inizio del suo lungo silenzio con il “Notturno”, scritto durante l’infortunio subito durante la Prima guerra mondiale. Forse questa è la prima e unica volta che il poeta parla a se stesso e al mondo con la sincerità della vita.
Il suo linguaggio si apre ad una nuova espressività che non è lontana da quella di un giovane che si chiama Ungaretti.
La nuova parola. È noto che D’Annunzio non ha mai reciso i contatti e gli interessi con le evoluzioni artistiche dei suoi ultimi anni. Il suo “Libro segreto”, strappato da un accordo editoriale di Mondadori, contiene frammenti di versi che percorrono una strada poetica totalmente diversa da quella da noi conosciuta. Purtroppo ad oggi, l’annunciato volume di “Versi inediti, dispersi o rifiutati”, annunciato da Luciano Anceschi nell’ultima edizione mondadoriana dei “Versi d’amore e di gloria”, non ha avuto ancora l’onore di esistere.
Il Vate potrebbe ancora stupirci e mostrarci l’avvento di una nuova parola. Forse proprio quella che non pensavamo.
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