“Adelchi” di Alessandro Manzoni

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di DARIO LODI <>
Forse pensando al coronamento del suo testo “Osservazioni sulla morale cattolica” del 1819, due anni dopo Alessandro Manzoni (17985-1873) realizzò la tragedia “Adelchi”. Le osservazioni del 1819 erano state richieste, a quanto pare, dal vescovo Paolo Tosi, alla ricerca di una contrapposizione alle opinioni dello svizzero Sismonde de’ Sismondi (“Storia delle repubbliche italiane nel Medio Evo”), grazie alle quali la responsabilità della Chiesa verso la decadenza morale del tempo fu determinante. Il Sismondi, affermando questa cosa, sottintendeva che la Chiesa era comunque dannosa per la civiltà in quanto organo temporale alla pari di quello laico. Nel capitolo centoventisette del XVI volume, lo scrittore svizzero evidenzia la crisi morale irreversibile per il passaggio della Chiesa da organo spirituale a realtà materiale, e questo per ragioni oggettive (l’assenza di un potere centrale) trasformate in privilegi. Non tutta la Chiesa fu ed è così. Sono sempre esistiti ecclesiastici in linea con i principi canonici. Era quello che voleva mettere in evidenza il vescovo Tosi, promuovendo però il poco di buono nell’istituzione religiosa al tanto.
Manzoni intendeva, infatti, difendere la Chiesa a spada tratta, ritenendola comunque unica depositaria della salvezza morale e pensava in cuor suo, ben conscio delle cose, a una piena ricostruzione morale dell’istituzione, secondo lui, come secondo molti altri, possibile (si pensi, ad esempio, al neoguelfismo di Vincenzo Gioberti e al primato dell’Italia da lui sostenuto per la presenza della Chiesa nella Penisola). Dobbiamo pensare alla decadenza ecclesiastica nel governo civile e alla nostalgia per questa perdita, in quanto la Chiesa era comunque considerata un porto sicuro. Il Giansenismo, al quale lo stesso Manzoni aderì, aiutò, per così dire, le anime belle e gli spiriti smarriti. Questi ultimi, se convenzionalmente eletti, ovvero se eletti secondo alti gradi d’intellettualità, come concepisce il sistema l’elevazione, possono tuttavia giungere al concetto di Provvidenza. Lo scrittore milanese ne è l’esempio più fulgido.
Manzoni non è uno spirito semplice. Manzoni è un personaggio complesso. L’”Adelchi” lo rivela ampiamente. La storia è popolare. Adelchi, figlio di Desiderio re dei Longobardi, prima cerca di convincere il padre a non scendere in battaglia (che gli costerà una grave sconfitta), poi combatte strenuamente Carlo Magno, perde, come previsto, viene preso e condannato a morte. Prima dell’esecuzione, implora Carlo Magno di salvare la vita del padre Desiderio (cosa che avverrà), volendo porre fine allo scorrere del sangue. Su di lui, su Adelchi, cala dall’inizio alla fine un senso di pietà che non sposa automaticamente quella cristiana. Adelchi è un predestinato alla sconfitta, questa è l’atmosfera della tragedia, ergo egli è un uomo. Dio è scomparso (non dimentichiamo che i Longobardi si erano convertiti da tempo al Cristianesimo), lo ha del tutto abbandonato. Gli ha preferito Carlo Magno, prossimo imperatore del Sacro Romano Impero (ovvero l’impero della Chiesa che l’imperatore tradizionale è chiamato a difendere e a imporre, cosa che Carlo farà trucidando migliaia di reprobi e d’incerti).
La tragedia avrebbe potuto finire quasi in commedia, se Manzoni avesse accettato di elevare Carlo Magno e abbassare Adelchi, fissando nella elevazione e nell’abbassamento l’avanzata della modernità cristiana sulla barbarie longobarda. In parte questa accettazione avviene, a tratti appare che l’anima della vicenda sia la banalità delle mani giunte contro quelle armate, sebbene neanche le prime siano esattamente pure. La raccomandazione evangelica del perdono al nemico, trasformandolo subito in amico, qui non trova posto e questo è un grosso problema per l’autore, che si rende conto dell’assurdità della battaglia, secondo le parole di Gesù, secondo il suo personale credo di devoto cristiano, e sceglie la strada dell’uomo sperduto, smarrito, nella dannazione umana. Si noti come Manzoni umanizzi i personaggi, a partire da Ermengarda, sposata e ripudiata da Carlo Magno (sarà la causa della guerra tra Franchi e Longobardi). Alla notizia delle nozze del prossimo imperatore, cade in deliquio e muore:

«Sparsa le trecce morbide
su l’affannoso petto,
lenta le palme, e rorida
di morte il bianco aspetto,
giace la pia, col tremolo
sguardo cercando il ciel»

Quel “cercando il ciel” è un evidente richiamo religioso, ma in realtà va preso come una dichiarazione d’impotenza. Ermengarda non ha fiducia addirittura neppure nella Provvidenza. Si tratta di una specie di un ripensamento non voluto sulla verità celeste, alla quale Manzoni è sinceramente affezionato. Ma ecco ribadire il ripensamento. Siamo verso la fine della lunga tragedia (V atti), parla Adelchi:

Cessa i lamenti,
Cessa o padre, per Dio! Non era questo
Il tempo di morir? Ma tu, che preso
Vivrai, vissuto nella reggia, ascolta.
Gran segreto è la vita, e nol comprende
Che l’ora estrema. Ti fu tolto un regno:
Deh! nol pianger; mel credi. Allor che a questa
Ora tu stesso appresserai, giocondi
Si schiereranno al tuo pensier dinanzi
Gli anni in cui re non sarai stato, in cui
Nè una lagrima pur notata in cielo
Fia contro te, né il nome tuo saravvi
Con l’imprecar de’ tribolati asceso.
Godi che re non sei; godi che chiusa
All’oprar t’è ogni via: loco a gentile,
Ad innocente opra non v’è: non resta
Che far torto, o patirlo. Una feroce
Forza il mondo possiede, e fa nomarsi
Dritto: la man degli avi insanguinata
Seminò l’ingiustizia; i padri l’hanno
Coltivata col sangue; e omai la terra
Altra messe non dà. Reggere iniqui
Dolce non è; tu l’hai provato: e fosse;
Non dee finir così? Questo felice,
Cui la mia morte fa più fermo il soglio,
Cui tutto arride, tutto plaude e serve,
Questo è un uom che morrà.

Tutto questo non significa affatto che Manzoni abbandoni la sua amata Provvidenza divina, di cui i suoi “Promessi sposi” sono intrisi, così come gli “Inni sacri” (ma non la splendida “Colonna infame”), bensì vuol dire che anche un grande intellettuale guelfo come lui si ritrova costretto a rendere dialettica la questione della fede, ammettendo considerazioni sull’uomo e la sua pochezza, vissuta però con una certa fierezza, con un certo orgoglio e con profonda partecipazione alle cose umane, terrene.


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