Nel terzo millennio esiste ancora un ruolo per le religioni?

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di VALERIO POCAR <> Parlerò di religioni e non già di credenti o di ministri del culto, ché il discorso richiederebbe, allora, per un verso, più sfumati e articolati chiaroscuri e, per altro verso, valutazioni ben più nette, e intenderò una “religione” come un insieme di credenze, di precetti, di regole, dotato di un certo carattere istituzionale. E intenderò il “ruolo” come la capacità di svolgere una o più funzioni, indipendentemente dal fatto che si tratti di funzioni utili o dannose. Ciò premesso, la mia risposta, alla domanda: “nel terzo millennio esiste ancora un ruolo per le religioni?”, è in parte negativa e in parte (a mio modo di vedere, purtroppo) affermativa.
Se guardiamo retrospettivamente a un lontano passato, le religioni hanno inteso o preteso di svolgere certe funzioni e comunque di fatto le hanno svolte. Nella vichiana “età degli dèi” o nel comtiano “stadio teologico”, le religioni fornirono, per come potevano, ma anche per come allora si poteva , risposte a interrogativi sia conoscitivi sia morali.

PROBLEMI DI CONOSCENZA
A interrogativi conoscitivi. Non essendo in grado di spiegare il “come” delle cose le religioni rinviarono a un presunto loro “perché” , un perché individuato per lo più in una volontà causante, in genere teleologicamente orientata, esterna e trascendente rispetto alla natura, di una o più divinità più o meno parlanti e comunicative. Si offrirono così del mondo e della sua origine e anche della sua finalità visioni o immaginate dalla stessa narrazione religiosa (per esempio, il Genesi) o appoggiate ad altre già formulate con maggior rigore di pensiero (per esempio, il sistema tolemaico), nonché visioni dell’uomo e della natura vivente di tipo, in genere, antropocentrico, legato a una concezione antropomorfica della divinità. Una forma di pensiero tipicamente dualistica, fondata sulla contrapposizione tra naturale e soprannaturale.
Le risposte di natura teologica fondate sul “perché” e sul “fine” e non sul “come”  delle cose non potevano che cristallizzarsi, poiché tale “pseudo conoscenza” era necessitata a pretendersi come “vera ed eterna”, fino alla negazione dell’evidenza (pretesa che si mantiene tuttora, per esempio col “creazionismo” o con la sua versione aggiornata del “disegno intelligente”). Portatrici di verità eterne, le religioni venivano e vengono fatalmente a contrastare lo spirito critico fondante della libera ricerca scientifica, la quale, per definizione, pone in discussione le proprie acquisizioni e a maggior ragione non può accontentarsi di conoscenze sedicenti vere ed eterne. Nei confronti della ricerca scientifica, fino a ieri, le religioni hanno spesso vinto la battaglia (ricordo, per esempio, Ipazia, il rogo della biblioteca d’Alessandria, Galileo, Darwin), ma non hanno vinto la guerra, anzi.
Pur rappresentando contenuti inverosimili e metodi non sostenibili dal punto di vista razionale, le religioni sono ancora costrette a prospettare il conflitto tra fede e scienza, un conflitto che può ipotizzarsi solo mediante lo sfalsamento dei piani del discorso, tra loro del tutto diversi e anzi non comunicanti. La pretesa sarebbe che la scienza debba restare subordinata o almeno che non si ponga in contraddizione con la religione, e che le asserzioni di fede (rectius, delle religioni) debbano considerarsi scientifiche e razionali non meno delle risultanze della ricerca scientifica.
Queste pretese non hanno più ragion d’essere e questa funzione delle religioni è da mandare nella soffitta degli albori del pensiero umano.

LA QUESTIONE MORALE
Quanto alla risposta agli interrogativi morali, le religioni, dall’asserzione di una verità ontologica, hanno fatto discendere, com’era inevitabile, l’asserzione di una “verità morale” anch’essa ontologica, la cosiddetta “retta morale” Di qui, ancora una volta di necessità, discende una “contrapposizione” tra la retta morale e la scienza, che è cosa ben diversa della “dialettica” tra la scienza e la morale: nella contrapposizione, infatti, vi è, ancora una volta di necessità, la negazione e il contrasto nei confronti di una ricerca o costruzione morale libera e conforme all’autonomia degli individui. Questa negazione non manca di porre serie pastoie alla ricerca, come ben dimostrano le vicende delle cosiddette “questioni bioetiche.
Ma, almeno da Grozio in poi, sappiamo che la normatività sociale e la normatività morale ben possono trovare fondamento nell’umanità degli uomini, e non necessitano dell’affermazione di dio (etsi deus non daretur). Da tempo sappiamo che la morale rappresenta una costruzione fondata su basi culturali e sociali, da un lato, e filosofiche, dall’altro, ed ha valore nella sfera privata dell’individuo, in un quadro pluralistico e genuinamente relativistico, ed ha senso solamente nel riconoscimento della libertà di coscienza, compreso anche la libertà religiosa. Del resto, sarebbe alquanto difficile credere all’esistenza di un’unica vera morale, posto che l’esistenza di una pluralità di visioni morali diverse nel tempo e nello spazio tra loro difficilmente riducibili è semplicemente un dato di fatto, e non si può non essere consapevoli dell’impossibilità di individuare un criterio razionale ed oggettivo per stabilire la verità o il maggior pregio dell’una visione rispetto all’altra, sicché l’unico criterio è l’adesione o la scelta individuale e/o il condizionamento sociale.

IL TERZO MILLENNIO
Dunque, agli interrogativi conoscitivi e morali le religioni, nel terzo millennio come già da gran tempo in passato, rispondono in modo sempre più evidentemente inadeguato, sia rispetto ai metodi e alle acquisizioni della ricerca scientifica, che esse possono negare ma non confutare, sia rispetto alla libertà morale degli individui, che, in modo inappropriato proprio sotto il profilo etico, vorrebbero limitare e/o squalificare. Sotto questo profilo, pertanto, alla domanda “esiste ancora un ruolo per le religioni?”, sarei propenso a rispondere “no”, quanto meno “nessun ruolo utile”.
Sennonché, di fatto, sotto entrambi i profili, quello della conoscenza e quello della morale, le religioni, più che inadeguate se non inutili, appaiono piuttosto svolgere un ruolo dannoso. E in questo senso mantengono purtroppo un ruolo di primo piano.
Da un lato, sia per coloro che vi aderiscono per convincimento sia anche per coloro che le seguono per inconsapevole abitudine o per tradizione, le religioni svolgono una funzione, illusoria e irrazionale, di rassicurazione e di consolazione. Fondate sul sentimento della “paura”, per dirla con Hume, le religioni inducono a rivolgersi a un’entità sovrannaturale e potente nella speranza di ingraziarsela, di fatto sostituendo a un timore oscuro il timore verso un’entità altrettanto oscura che sarebbe possibile ingraziarsi, a patto di esserne servi fedeli. Ma, è ancora Hume a rilevarlo, la gestione della moralità fondata sui rituali e affidata al clero illanguidisce la tensione morale e lo stesso sentimento della moralità. Anche , a mio parere, soprattutto per questo motivo, le religioni svolgono, dunque, tuttora una funzione di controllo sociale rilevantissima, quasi sempre in senso conservativo, com’è nella natura di istituzioni fondate su saperi e scelte morali legate al passato e alla tradizione, fondati sulla staticità (molto rari gli esempi di un ruolo dinamico, di regola contrastati dalle gerarchie). Si tratta di una funzione di controllo sociale che solo con difficoltà, tuttavia, possiamo e vogliamo considerare, in linea di principio, come un aspetto proprio delle religioni e che con le religioni non dovrebbe aver nulla a che fare.


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